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 2012  novembre 26 Lunedì calendario

In una stradina del quartiere Parioli abita Giorgio Albertazzi: l’attore per antonomasia, verrebbe da dire

In una stradina del quartiere Parioli abita Giorgio Albertazzi: l’attore per antonomasia, verrebbe da dire. È domenica mattina. Poca gente in giro. Qualche cane, trascinato da domestiche indifferenti, annusa un’aria che sa di pioggia. Tutto è autunnale. Anche i numerosi cartelli con scritto "vendesi appartamento", che affissi un po’ ovunque, mostrano che quel luogo romano, concentrato di ricche famiglie, sta lentamente ingrigendo. Arretra davanti ai colpi della crisi. Non fa eccezione. Albertazzi abita al pianterreno di una palazzina. Mi riceve con divertita rassegnazione. Guardo il disordine dell’appartamento, sembra quello prodotto da uno scapolo. Guardo lui e noto che regge benissimo ai colpi del tempo (farà novant’anni tra qualche mese). Ha retto meno alle tavole del teatro: due lividi ai lati del naso ne rabbuiano il volto. "Caduto sulla scena", commenta brusco. E poi aggiunge: "Recitavo Puccini a Castellammare di Stabia. Una scena di gelosia. Mi lancio verso la ragazza e inciampo fra i tendaggi. Giù, a faccia avanti. Che botta! Fermo un quarto d’ora. Il sangue, lo stordimento, il dolore. Il medico voleva che facessi immediatamente la tac. Decido di riprendere. Poi l’ovazione e il teatro che sembrava dovesse crollare. L’attore ferito che torna in scena. «Pura epica, leggenda. Il pubblico in piedi che gridava: Giorgio, Giorgio!». Le piace questo mestiere. «Adoro sentire le vibrazioni del pubblico e mi piace Albertazzi». Come fu il suo esordio? «Un gran debutto: Firenze, Troilo e Clessidra, regia di Visconti. 1949, mi pare. C’erano tutti i migliori: Ricci, Benassi, Stoppa, Cervi, Ruggeri. Gassman. Facevo il servo di Clessidra, interpretata da Rina Morelli». Grande compagnia. Le avrà insegnato tanto. «Ci ho messo un paio d’anni a imparare a recitare come loro e tutta la vita a disimparare. La verità è che non ho mai amato il teatro. Il loro soprattutto». Sputa nel piatto dove mangia? «Del teatro mi coinvolge la vita degli autori. Il grande teatro è tradimento. Le opere non mi interessano. Le confesso che non ho neppure letto fino in fondo Le memorie di Adriano. Eppure ho fatto quasi mille repliche in giro per il mondo con lo spettacolo. Ma ho letto tutto quello che c’era da leggere su Marguerite Yourcenar. Donna strepitosa. Mi soffermo sulle sue foto da giovane e da vecchia. E ammiro la sua lotta contro il tempo. La stessa che combatteva Hemingway. Esistono gli autori. I personaggi sono ombre, fantasmi, passanti». Alla fine cosa mette in scena? «Me stesso, naturalmente». Un’affermazione carica di responsabilità. «Lo so, è azzardato dirlo. Ma succede qualcosa che non so neppure io cos’è. Se faccio Adriano sono Adriano. Così con Giulio Cesare e Riccardo III». E dov’è Albertazzi? «Dentro di loro. Il mimetismo è totale. Annullo i personaggi per questo diventano ombre o fantasmi». Un vero egocentrico. «Mi lasci riflettere. C’è in me il gusto della scoperta: vedere cosa accade non sapendo quello che accadrà. Non mi chiedo mai come cammina o muove le mani un certo personaggio. Chissenefrega. Mi interessa come cammino e muovo io le mani. Io sono Re Lear e Re Lear è me». Cos’è una trance teatrale? «È la schizofrenia dell’attore: sdoppiarsi e ricomporsi. È doloroso, ma secondo me Antonin Artaud faceva la stessa cosa. E anche Carmelo». Intende Bene? «Sì proprio lui. L’unico, tra tutti gli attori, che sento più vicino». Lui forse non sarebbe stato della stessa idea. «Non ne sono convinto». Polemizzaste ferocemente. «È vero. Però piombò tra me e Vittorio Gassman come un V2. Un critico scrisse chi è il re tra i magnifici quattro? Intendeva tra Romolo Valli, Gassman, Bene e Albertazzi. Io non credo che sia un atto di superbia ma un fatto erotico sentirsi il migliore. E la partita era tra me e Bene. Portò nel teatro il talento e la provocazione». Provocatoriamente disse infatti che aveva chiamato il suo cane lupo "Albertazzi". «E io risposi: amo troppo i miei cani per chiamarli "Carmelo Bene". Quando morì fui il primo a rendergli omaggio al Teatro Argentina. E la sorella, che vedevo per la prima volta, mi ringraziò. In quell’occasione mi confessò che Carmelo continuamente diceva: Albertazzi non mi vuole bene, non mi capisce. E invece l’ho adorato». Che cos’era il suo recitare? «Teatro della crudeltà. Dietro quell’apparente cinismo si massacrava». E di Gassman cosa pensa? «Bravissimo accademico. Ma il grande Gassman è quello del cinema non del teatro. Però il suo arrivo sul palcoscenico fu clamoroso e devastante. Portò in scena l’atletismo, il corpo. E fu una novità. Fino a quel momento tutti gli attori recitavano composti nei loro abiti di scena, corretti nella voce. Nella dizione, e nella potenza: Renzo Ricci, Ermete Zacconi. Meravigliosi dinosauri». E per lei cos’è il teatro? «Aver paura di se stessi. Farsi male. È Orfeo che si fa divorare dalle baccanti. Il teatro non ha nulla di pensoso, di contemplativo, di distaccato. È cannibalico. Convoca l’eros e la morte. Ho sempre pensato che nel grande teatro la parola debba coincidere con il pensiero. Senza questa alchimia il teatro diventa una cosa noiosa: un ripetere le parole, entrando da destra o da sinistra». Ed è finzione? «Assoluta. Fingere vuol dire capire». Lei ha un qualche rapporto con la verità? «La penso come Nietzsche: non ce n’è una sola. Soltanto Ratzinger può dire che la verità è una e splendente». Lei crede? «In nulla. Detesto pensare che qualcuno da su ci consoli o ci punisca. Le mie consolazioni sono i miei ricordi». Il più bello? «Con Franco Zeffirelli facemmo all’Old Vic di Londra un Amleto straordinario. Giudicato da Lawrence Olivier il più bello di quell’anno. Tra coloro che lo interpretarono c’erano Peter O’-Toole, Jean Louis Barrault, Richard Burton, Maximilian Schell. Era il 1964». Lei ha recitato tanto Shakespeare? «Sedici opere in tutto. Nessuno è all’altezza di Shakespeare e di Dante». E tra i contemporanei? «Amo Borges e Proust mi piace, ma mi annoia. Mi intriga la sua idea del tempo. Vorrei fermare il tempo. I miei quasi novant’anni che rincorro come una palla da bowling». Cos’è per lei la vecchiaia? «Ci sono tre indizi: quando confondi o dimentichi i nomi; quando cammini a piccoli passi; ma il più terribile è quando ti fanno presidente onorario. Però ci vogliono molti anni per diventare giovane». Aveva vent’anni quando aderì alla Repubblica Sociale. Che ricordo ha? «Intanto non fui il solo. Altri, come Dario Fo, Franco Enriquez, Enrico Maria Salerno, per restare nel mio mondo, avevano compiuto quella scelta». Lei andò volontario. «Sì, feci la scuola allievi ufficiali per otto mesi. Perché? Mi chiede. Potrei risponderle perché provai schifo per la vigliaccheria di un Re che scappava. Oppure dirle che mio zio fascista fu ammazzato a Campo di Marte. E lo vidi morire sputando sangue dai polmoni. Ma la verità è che io ho aderito a quella parte perché mi sembrava di fare qualcosa di simile al D’Annunzio fiumano». Anche quando partecipò all’esecuzione di un disertore? «Non partecipai. Presenziai in quanto, come sottotenente, ero il più alto in grado. Il capitano era stato ferito e il tenente, quella mattina, si era dato malato. Il comando italo-tedesco aveva condannato a morte quel giovane. Noi per giorni prendemmo tempo. Alla fine arrivò il colonnello Zuccari e il comandante tedesco e ci dissero che se l’indomani il disertore non fosse stato fucilato noi avremmo preso il suo posto». Uno scambio di vite? «No, un gesto inutile. Perché quel giovane sarebbe stato comunque fucilato». Quello a cui assisteva non era teatro ma vita. Cosa provò in quel momento? «L’impressione fu grande. Ma al tempo stesso c’era una tensione drammatica. Vedevamo tornare sulle barelle i nostri morti. Era terribile. Si era a Sestino, nei pressi della linea Gotica». In seguito fu arrestato? «Passai un anno in carcere. Tra Bologna e Milano. In attesa di un processo che non ci fu perché venni assolto in istruttoria dal generale Traina». Si è chiesto se quella di aderire alla repubblica Sociale fu la scelta giusta? «La mia educazione fu fatta anche sugli episodi della Mas, sulla trasvolata di Balbo e la Fiume di D’Annunzio. Mi sentivo figlio di quelle imprese. Non sono mai stato fascista. La mia scelta, sbagliata che fosse, nacque per orgoglio nazionale. E l’ho pagata, glielo assicuro». Lei ha figli? «No, non ne ho mai voluti. Di recente ho pensato cosa sarebbe avere un figlio oggi di quaranta o cinquant’anni. Ma poi dico chissenefrega. Non sono un padre. Sono nato figlio di qualcosa. Magari di molte donne». Sono state importanti nella sua vita? «Fondamentali. Non saprei prescinderne». Perché? «Sono la grazia, la bellezza, il mistero». Non è un po’ scontato? «Dice la Yourcenar: "L’amore è un castigo. Veniamo puniti per non essere riusciti a restare soli"». Però è sposato. «Da qualche anno con Pia de’ Tolomei, discendente dalla celebre Pia dantesca. Una donna che amo e da cui sono amato sebbene ci dividano diverse generazioni». Che ruolo ha la vanità? «Me lo chiedo spesso». Si sarà dato una risposta. «È inutile che mi rifaccia a modelli diversi da me. Io non sono gli altri, non posso fingere di essere quello che non sono». Si accetta completamente? «Forse no. Anche se, a questo punto, sarebbe difficile immaginarmi diverso». Qual è il suo peggior difetto? «Dovrei dire la vanità. Mi piaccio troppo. Ma forse il mio peggior difetto è avere novant’anni. E oggi, quando mi dicono: bravo, bravissimo, non sento quasi più nulla. Applausi e ricchezza mi lasciano indifferente ». Ha guadagnato molto? «Tantissimo e ho dissipato altrettanto». Non teme l’attore che diventa povero? «Che finisce alla casa di riposo?» Non volevo giungere a tanto. «Mi auguro di no. Sono stato molto più amato di quanto io non abbia amato. Ogni cosa in amore inizia e finisce. È un fatto che gli dei ci invidiano. Mi viene in mente L’Immortale di Borges che è disperato perché non riesce a morire. Perché non c’è più l’attimo fuggente. Gli amori più sono grandi e più sono destinati a finire». Li rimpiange? «Sono la mia malinconia: una tristezza che si è fatta leggera. C’è bellezza anche nel decadere degli entusiasmi, nello spegnersi delle attitudini, nel corpo che non ti risponde più come una volta e ti obbliga a stare al suo servizio e non lui al tuo. Cambia la percezione del mondo. Queste parole mi colgono nell’assillo del tempo che passa. E dei progetti che non ho ancora realizzato. E so che vorrei fare ancora tante cose. Non mi piaccio come attore, mi piace il cuore del pubblico. Conquistarlo sera dopo sera. Fino alla fine». Morire in scena, come l’ultimo trionfo? «C’è molta retorica popolare in questa immagine. Ma forse sì, anch’io vorrei morire tra le tavole di un palcoscenico».