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 2012  novembre 25 Domenica calendario

CAMICE BIANCO DA STERMINATORI

La medicina sotto il nazismo è regolarmente oggetto di discussione da parte dei bioeticisti. Le aberrazioni delle sperimentazioni e delle torture mediche sono usate come analogie e con intenti un po’ terroristici, a ogni piè sospinto. Anche quando l’analogia non c’entra niente. Ma, in fondo, l’argomento bioetico della china scivolosa si chiama, o no, anche «analogia nazista»? E si pensa al processo ai medici nazisti istruito a Norimberga, e alla discussione sulla sperimentazione umana nei campi di concentramento. Ma questa era la punta di un iceberg della sofferenza prodotta da una macchina per lo sterminio degli ebrei che i medici tedeschi avevano progettato e di cui curavano l’efficienza. La tesi di laurea pubblicata a Parigi nel 1946 dal medico romeno ebreo Désire Haffner, sopravvissuto a due anni e mezzo di prigionia ad Auschwitz, illustra bene i pesi relativi sul piano quantitativo tra sperimentazione e danni causati direttamente dalla gestione medica del campo. In un’intervista rilasciata nel 1996, Haffner commenta che quel che accadeva in quel campo è «qualcosa che si può descrivere, ma non immaginare». Aggiungendo: «Il principio fondamentale delle nostre religioni, "non uccidere", ad Auschwitz era diventato "uccidi con calma, metodicamente, massivamente, ininterrottamente"».
Nei campi di concentramento accadevano anche «esperimenti naturali» – in questo caso dovuti anche alle aberrazioni di cui solo la natura umana è capace – dal punto di vista della patologia medica. Nel senso che le condizioni igieniche, lavorative e di violenza erano determinanti di specifiche malattie: da cui derivavano sofferenze fisiche e psicologiche immense, e quasi regolarmente morte diretta o uccisione nelle camere a gas. È l’epidemiologia della patologia medica, o la patocenosi quotidiana in un campo di sterminio, quella che viene descritta da Haffner. Il quale dice subito che «non esiste una patologia specifica dei campi di concentramento. Non vi abbiamo riscontrato alcuna patologia inedita, e l’evoluzione clinica delle malattie corrispondeva, a grandi linee, al quadro classico». Nemmeno tra i disturbi mentali se ne potevano trovare di atipici. La differenza era che le malattie conosciute non le si voleva prevenire, non si consentiva di curarle e si faceva anzi in modo che evolvessero in modo letale. E Haffner insiste sulla rapidità con cui si manifestavano gravi cachessie; cioè sull’aggravamento rapido di qualunque condizione morbosa, contratta o procurata. Esiti che diventavano pretesti per la soppressione fisica dei prigionieri malati. Ovviamente erano favorite alcune malattie rispetto ad altre, per esempio il tifo rispetto alla tubercolosi, che non faceva a tempo a manifestarsi; e poi le fratture erano frequentissime.
Quello di Haffner è un testo diverso – anche se vi sono alcune convergenze sul piano dei dati medico-sanitari – dal Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz (cioè il campo di lavoro noto anche come Auschwitz III) redatto da Leonardo Debenedetti e Primo Levi e pubblicato nel 1946, come la tesi di Haffner, su «Minerva Medica». Le divergenze patologiche si possono spiegare col fatto che Monowitz, detto anche Aschwitz III, era un campo di lavoro, mentre Birkenau, o Auschwitz II era un campo di sterminio. Ma la differenza principale è che oltre a mostrare, come fece Levi, che «il fenomeno Auschwitz» merita di «essere studiato con particolare attenzione, perché pone in maniera angosciosa il problema stesso dell’uomo», dipinge con pochissime parole quadri paurosamente autentici della natura umana. Prima di tutto per quel che di male essa può fare, che è sempre stato e sarà sempre preponderante nel mondo. Ma anche per quel che di accettabile si può tirar fuori dal nostro «legno storto».
Per quanto riguarda il male, Haffner coglie la sociopatia acquisita delle guardie naziste e dei delinquenti comuni polacchi a capo delle baracche, descrivendo come quelle persone risultassero del tutto normali tra loro, e come improvvisamente diventassero in modo altrettanto del tutto naturale sadici torturatori e disgustosi assassini. Colpiscono i passaggi fulminanti sugli intellettuali, cioè sull’irrilevanza della cultura nel proteggere dalla disumanizzazione e sulla permanenza degli impulsi xenofobi. «In questa folla... è difficile individuare un intellettuale... la sola differenza che persiste riguarda la nazionalità. L’avversione reciproca di alcuni popoli è la prima a ricomparire, sia pure in tono minore, non appena le condizioni migliorano». Tra gli atti di altruismo, cioè di bontà, i soffocamenti dei neonati che talvolta venivano al mondo nelle baracche: uccisioni effettuate per non mettere a rischio la vita della madre. E l’effetto placebo, descritto nel libro e prodotto dalla semplice simpatia manifestata dai medici: un effetto tanto più impressionante se si pensa al contesto, e non solo alla mancanza dei più elementari mezzi d’intervento.
C’è la tendenza da parte degli storici e intellettuali di formazione umanistica (compiaciuti dallo spettacolo di Paolini, Hausmerzen) a incolpare la medicina in quanto tale, cioè in quanto tecnica già predisposta a dar luogo ad abusi, per le atrocità commesse dai nazisti. Ma non è così. I campi di concentramento erano prima di tutto luoghi innaturali, cioè creati artificialmente allo scopo di schiavizzare, torturare e sterminare persone. La medicina non c’entra niente. È entrata in gioco per il fatto che l’intolleranza razzista e xenofoba considera il diverso come corrotto o veicolo di qualche minaccia patologica. E la tematizzazione medico-sanitaria del razzismo precede di millenni e va alle radici stesse delle predisposizioni umane alla xenofobia.