Gerardo Pelosi, Il Sole 24 Ore 25/11/2012, 25 novembre 2012
LA BOLLA DI GHIACCIO CHE SALVA IL MONDO
La terra da qui è lontana. Sulla cresta del duomo di ghiaccio che i primi cartografi inglesi hanno contrassegnato come «C», 1.200 chilometri dal mare di Baia Terra Nova, tutto ha un sapore estremo, una bellezza che incute rispetto, molto più spesso paura. Altitudine 3.200 metri ma percepita quasi 4mila, temperatura "estiva" a meno 40 (con il wind chill anche meno 60). In inverno quasi meno 90. La terra, quello che viene chiamato black rock è molto più in basso, a 3.500 metri, sotto la calotta di ghiaccio che racchiude tutto l’archivio della storia climatologica del pianeta.
Sopra, un sole che non scalda mai, circondato da un’aureola simile a un perenne, pallido arcobaleno. Nessuna nuvola in cielo, precipitazioni pari a 20 millimetri l’anno, dieci volte meno del deserto più secco dell’Africa. Nell’aria una polvere luccicante, il diamond dust dovuto all’umidità che si trasforma in brina. Ecco perché proprio qui, sulla cuspide del Duomo C la comunità scientifica europea ha perforato la calotta con la carota di ghiaccio di Epica (progetto europeo di dieci anni fa che è costato 40 milioni di euro) per registrare tutti i fenomeni naturali come le eruzioni dei vulcani Tambora nel 1815 e il più recente Pinatubo e per evidenziare anche gli errori dell’uomo soprattutto in termini di aumento progressivo del CO2.
Un campo di lavoro molto spartano, quello di Epica, come ce ne sono tanti in Antartide e che, sulla scorta di una più stretta collaborazione tra ricercatori italiani e francesi ha dato vita dal ’95 al 2005 alla base Concordia, due grandi "barattoli" di lamiera argentata, regno del riciclo e della sostenibilità ambientale, stazione aperta tutto l’anno con una quindicina di persone che proseguono il loro lavoro di studio anche nei nove mesi dell’inverno australe. Un confinamento pari solo a quello degli astronauti. Igor Petenko, ricercatore russo che da anni lavora a Tor Vergata e che ha concluso in questi giorni l’ottava campagna invernale a Concordia, si commuove quando ricorda la videoconferenza del maggio scorso con la stazione spaziale orbitante. In quel momento gli uomini sulla navicella erano gli esseri umani più vicini a Concordia, solo 500 km poiché gli altri ricercatori più vicini erano quelli della base russa di Vostok ma a 600 km.
Esperienze dal forte impatto psicologico che l’Esa, Ente spaziale europeo sta studiando nel dettaglio per capire le reazioni fisiologiche e soprattutto psicologiche del confinamento forzato. Sì, perché qui, nel deserto bianco, nessun aereo può atterrare o decollare durante l’inverno dal momento che ogni carburante gelerebbe. «Certo – racconta Mattia Bonazza, giovane paleclimatologo ancora precario dell’Università di Trieste, reduce da un inverno che non dimenticherà facilmente – motivi di scontro non ne mancano, la disciplina è rigidissima, ci sono turni per i servizi della base e poi c’è il lavoro che ognuno di noi deve continuare a fare nonostante il freddo ma ci si sente parte di un progetto comune».
Eppure la mattina del 15 novembre quando sulla pista di ghiaccio di Concordia è atterrato il DC3 Dakota per portare a casa i primi "invernanti" sembrava di stare davanti alla porta di un carcere. Un mix di emozioni difficili da percepire. Un po’ come i reclusi che fanno fatica a lasciare la cella perché in quel confino hanno trovato la loro dimensione e temono di non sapersi adattare alla vita di tutti i giorni, ai rumori, alle stagioni, al ritmo giorno-notte, all’assenza delle aurore, del primo sole, alla mancanza della festa del midwinter che culmina il 21 giugno da quando, nel 1915, la introdusse l’esploratore inglese Ernest Shackleton.
Un mondo con regole tutte particolari che è difficile abbandonare senza un rimpianto. Non è così per Barbara Grolla, l’infermiera francese di origine italiana abituata a lunghi periodi di confinamento sulle piattaforme petrolifere. Appena mette piede sul DC3 per fare ritorno alla stazione Zucchelli di Baia Terra Nova Barbara sembra rinata. E poco conta se fino all’ultimo deve svolgere il suo lavoro accompagnando in aereo fino a Chistchurch un tecnico dell’Università di Messina vittima di un piccolo incidente durante un carotaggio. Non si può dire che sia stato un inverno facile né per lei e tantomeno per Mattia.
I logistici che arrivano all’inizio di novembre con i primi voli trovano in ogni caso un ambiente con regole consolidate, con un suo equilibrio. Tutti sono felici di vedere nuovi volti ma, in fondo, c’è sempre un po’ di gelosia per l’invasione degli "alieni" nel microcosmo creato nella lunga notte australe. Non è sempre facile dividere con un compagno le 16 stanze che per nove mesi vengono assegnate ognuna a un ricercatore o trovare libero il proprio posto a tavola scelto dopo mesi di "assestamento". Ora spetta alla giovane e brillante capospedizione italiana di Concordia, Roberta Mecozzi, trovare la "quadra" ed evitare che vi siano eccessivi squilibri tra la campagna invernale e quella estiva molto più numerosa (fino a 80 persone) ed eterogenea. Non mancano certo i suggerimenti di un veterano dell’Antartide come Alberto Della Rovere, attuale capospedizione della stazione «Mario Zucchelli» a Baia Terra Nova.
Ma perché, a cento anni di distanza dalla corsa al Polo Sud, quella Race immortalata molto bene nei diari dei due concorrenti Scott e Amundsen e rievocata nel libro di Roland Huntford, si viene ancora qui sfidando freddo e disagio? Perché, dice Massimo Frezzotti, responsabile dell’Unità tecnica Antartide dell’Enea e glaciologo di fama internazionale, questa parte del pianeta, per una serie di effetti sulle correnti degli oceani, resta uno dei principali motori del clima mondiale, quindi studiando la variabilità naturale di certi fenomeni possiamo avere maggiori informazioni sui cambiamenti del clima. Ma dopo Epica cos’altro ci sarà da trovare nelle carote di ghiaccio? Il progetto Ipics, spiega Frezzotti, ossia International partnership for Ice Core Science, da un lato si è posto l’obiettivo di trovare un sito per una perforazione che raggiunga il milione e mezzo di anni, dall’altro che si dia vita a un network di perforazioni per studiare a più alta risoluzione gli ultimi 40mila anni e avere notizie sempre più dettagliate sulla storia del clima.
Nel primo caso è partita una vera corsa al sito della «superEpica». L’Italia punta a un sito a 200 km a sud-est di Concordia, i russi vorrebbero perforare a 300 km dalla loro base di Vostok, i giapponesi vicino a Dome Fuji e i cinesi a Dome A. Alla fine si avranno forse più perforazioni, una a leadership europea, una asiatica (presenza sempre più aggressiva come dimostra l’investimento dei coreani che costruiranno entro il 2014 una nuova base a 8 km da Zucchelli) e una degli americani che sono gli unici ad avere una stazione, la Scott-Amundsen proprio a South Pole. Prosegue intanto il lavoro sull’alta definizione. In sostanza, dice Frezzotti, è come avere una foto a 3 pixel che è quella di Epica, a 8 pixel che è quella della carota di Talos Dome e a 25 pixel quella che faremo ora con i coreani a GV7. Ma se le informazioni contenute nelle bolle d’aria intrappolate dal ghiaccio di centinaia di migliaia di anni registrano alcune informazioni occorre anche "validarle" con gli studi sull’atmosfera. È quello che stava facendo a Dome C Mattia Bonazza e ora Elio Padoan che lavora per l’Università di Firenze. In una stazione poco distante dalla base Concordia, Bonazza e Padoan scavano trincee per rilevare la densità della neve e raccogliere in filtri le tracce contenute nell’atmosfera. Da precari. La «lunga notte», per loro, non è finita.