Maria G. Maglie, Libero 23/11/2012, 23 novembre 2012
STALIN, IL MOSTRO CHE HA DIVORATO SUA MOGLIE
[Angela Feo racconta la storia di Nadja, seconda compagna del dittatore russo, morta suicida in una stanza del Cremlino. Era il solo modo che aveva per sfuggire all’orrore] –
Le storie di donne oppresse in fondo si assomigliano tutte, è incredibile la loro universalità. Soffrono allo stesso modo al calore e all’ombra del Palazzo del Cremlino come nel gelo di una capanna di pastori in Anatolia. Ricordo ancora la visione disturbante di un film turco, Yol. Erano tutti poveri, perseguitati e miserabili i personaggi, maschi e femmine, eppure il destino della donna prostituitasi per sopravvivere con i figli mentre il marito era in prigione politica riusciva ad essere il più terribile: incatenata come una bestia dai parenti di lui, in attesa della morte certa che l’uomo offeso, appena liberato, avrebbe dovuto per forza di tradizione infliggerle. Le donne sono sempre vittime due volte.
Nadja è morta a trent’anni senza essere riuscita a diventare l’adulta che tanto avrebbe voluto diventare; oppure è morta e trent’anni per non diventare (...) quel che il destino e Stalin le avevano riservato. La morte l’ha protetta e salvata. Sua figlia Svetlana, in una frase che fa da cappello a questo libro, insiste caparbiamente a dire che sua madre fu solo sé stessa. Bella frase, colma di rimpianto e considerazione, dettata dal desiderio di dissipare qualunque chiacchiera di troppo sulla vita e sulla fine di una madre amata anche se poco conosciuta, ma non risponde a verità. Nadja si è uccisa perché era l’unico modo per diventare finalmente sé stessa; si è uccisa per non vedere quel che sapeva sarebbe accaduto al Paese e alle persone, per salvare almeno la speranza della rivoluzione buona che da bambina con tanta sicurezza e incoscienza le avevano insegnato. Si è sottratta al mostro, rinnegando così la vergogna di averlo amato.
La storia che è seguita le dà tristemente ragione. È la storia, a lungo ignorata e rimossa dall’Occidente, e dall’Italia del Partito comunista dalla faccia pulita, tanto amato dalla buona borghesia, di decine di famiglie i cui legami, una generazione dopo l’altra, si spezzano sotto ondate repressive che hanno il culmine nel grande terrore del 1937-1938, ma che continuano nei decenni successivi. Con il tempo le repressioni allargano sempre più la sfera sociale delle vittime; sono nobili, contadini benestanti o kulaki, ebrei, membri di nazionalità non russe, sono gli sfortunati che non possono dimostrare origini proletarie o che semplicemente suscitano un qualche sospetto, una invidia, nel potere sovietico. Alla fine dell’opera tragica non vi è famiglia che non sia stata attaccata e violata, con lo strascico che il terrore sistematico sempre si porta dietro di strategie estreme di sopravvivenza, di tradimenti infami, di silenzi traumatici, di paure mai superate, di menzogne inconfessabili. Nessuna società esce indenne da tale poderoso lavoro di corruzione: non rinnegando parentele e amicizie, chiudendo gli occhi di fronte ad atrocità, accettando di avere genitori, fratelli, parenti tra i «nemici del popolo» e imparando a rinnegarli, a nascondere legami profondi.
L’illusione dei primi anni, quella che aveva provato Nadja adolescente, era l’opposto della plumbea realtà che Stalin costruì. Il comunismo doveva essere come un’età dell’oro, le ingiustizie della Russia dello zar cancellate, tutto a disposizione e gratuito, per tutti l’opportunità della vita migliore possibile. La disillusione fu cocente, ma anche la rimozione fu potente. Perfino dopo la guerra, per moltissimi cittadini sovietici la vittoria contro il nazismo, al fianco di americani e inglesi, la spartizione assai generosa per l’Unione Sovietica che ne seguì, bastò a giustificare tutte le nefandezze che il regime sovietico aveva fatto negli anni del terrore.
Nadja non si sarebbe raccontata bugie, non avrebbe coltivato illusioni per chiudere gli occhi. Sarebbe stata una testimone impotente e disperata.La morte l’ha salvata. Basta vedere che cosa è successo ai vivi, a quelli che intorno a Stalin sono rimasti negli anni del potere cieco e crudele del Piccolo Padre. La figlia Svetlana, che già adulta fuggirà negli Stati Uniti ma non riuscirà mai a trovare pace, scrive di lui: «Era un uomo molto semplice. Molto crudele e molto maleducato. Non c’era niente di complicato in lui. Mi voleva bene e voleva che diventassi una marxista beneducata».
Il figlio del primo matrimonio, Yascia, fatto prigioniero dai tedeschi durante la guerra, si buttò su un reticolato elettrico del lager nazista, e morì folgorato. Aveva saputo dai comandanti del campo che suo padre aveva rifiutato di scambiarlo con un generale tedesco. «Non si scambia un generale con un semplice comandante di batteria», aveva sentenziato il dittatore. La versione ufficiale parlò naturalmente di una morte eroica. L’altro figlio maschio, Vassili, morì nel 1962, a quarant’anni, piagato da una vita da alcolista cominciata da bambino, quando il padre, incurante delle proteste della moglie Nadja, lo obbligava a bere vino rosso, aspro, forte. Molto semplice, molto crudele.
Pochissimi furono i superstiti dei numerosi parenti della prima moglie, gli Svanidze, e della seconda, gli Alliluyev, che pure tanto avevano fatto per Stalin giovane, offrendogli casa, riparo, protezione. Tutti subirono la deportazione. Due cognati furono fucilati, quattro cognate imprigionate. I parenti ebrei dei capi della nomenklatura fecero la stessa fine. La moglie di Molotov fu esiliata nel Kazakhstan, il marito si limitò semplicemente ad informarla dell’arresto. La moglie di Alexandr Poskrebjsev, primo assistente politico di Stalin, finì in un gulag sul Mar Bianco. La stessa sorte toccò a Nadodza, moglie di Bulganin, a Marija, consorte di Kaganovic, e al genero ebreo di Krusciov.
Nel rapporto del 1963 Nikita Krusciov disse che Stalin aveva commesso dei crimini talmente gravi che «riempiranno tutti i comunisti e il mondo intero d’uno sdegno tale che diverrà impossibile a chiunque di ripeterli». Non era la verità, la destalinizzazione non sarebbe certo bastata né a cambiare le sorti del regime né a restituire libertà, dignità, morale, all’esperienza, per fortuna finita nell’ignominia vent’anni fa, del comunismo al potere in quell’area del mondo che, non dimentichiamolo, è Europa.
Questo libro restituisce a Nadja un po’ di verità, la risarcisce di tante menzogne sulla vita e sulla morte. È scritto volutamente con ciglio asciutto e fraseggio aspro, ma si capisce tutta la partecipazione emotiva, tutta la comprensione femminile, in alcuni bozzetti della protagonista. Alla fine della lettura sarà facile ricordarla apparecchiata come per la festa finale, l’abito nero lungo ed elegante, la rosa rossa tra i capelli, nell’ultima sfida. Era una ragazza che aveva visto già tutto il male, che ci aveva dormito insieme. A volte il suicidio può essere l’unica via di scampo.