Chiara Paolin, il Fatto Quotidiano 23/11/2012, 23 novembre 2012
SE BASTA UN CLIC PER SENTIRSI MORIRE [I
sociologi: “i gestori dei social network dovrebbero essere molto più attenti ai contenuti”] –
L’indirizzo ormai è una pagina vuota: “Spiacenti, al momento questo profilo non è disponibile. Riprova più tardi”. Prima c’erano gli insulti al ragazzo coi pantaloni rosa, adesso più niente. Perché dopo gli sghignazzi, le parolacce, le foto ritoccate in un gioco forse scappato di mano, resta il vuoto del quesito enorme: ma Facebook, e tutto ciò che rimbalza via internet passando tra le mani curiose dei più giovani, è un modo nuovo di far girare il mondo o un pericolo che gli adulti non hanno ben calcolato?
Sul pianeta terra ci sono un miliardo di profili Facebook attivi, e mai nessuno ha pensato che vederne spuntare uno nuovo potesse dire mettere a rischio la vita di qualcuno. È solo un passatempo per adolescenti, una semplice chiacchiera adattata ai tempi dell’informatica. E invece la differenza c’è. Il compagno che ti prende in giro a scuola, in palestra, in piazza, deve fare una certa fatica per bersagliarti quotidianamente. Deve fare squadra con i colleghi di dileggio deve mantenere la leadership dello sfottò. Deve inventarsi ogni giorno il modo per portare avanti la sua piccola o grande crudeltà. Con il web è tutto più semplice: basta postare un messaggio per dire la stessa stupidata a centinaia di ragazzi, amici, conoscenti. Basta inventarsi un falso profilo per accumulare minuto dopo minuto una quantità spaventosa di porcherie . La vittima, al contrario, ha ore e ore per girare tra blog, profili e siti soppesando ogni dettaglio. Ogni disprezzo. Ogni immagine offensiva. La vittima non è più se stessa, è quello che gli altri hanno deciso che sia, è una caricatura insopportabile delle proprie debolezze, e a un certo punto può decidere di farla finita.
Così è successo a tanti ragazzini, tormentati dallo sforzo di essere grandi e forti mentre una voce dentro gli diceva che non potevano farcela. Il ragazzo di Roma che s’è impiccato con la sciarpa, aveva inventato un modo per presentare la sua personalità, e teneva duro, provocava pure smaltandosi le unghie e l’umore. Poi una prof l’ha sgridato, alcuni compagni hanno riso, altri hanno continuato a pensare di poterci scherzare perché era un tipo strano. “Se non riusciamo a scardinare vecchi schematismi culturali, frutto dell’ignoranza, vuol dire che abbiamo fallito. La scuola, che è il luogo della formazione nella nostra società, deve essere aperta alle diversità”, ha detto il garante per i diritti dell’infanzia, Vincenzo Spadafora. Ma la scuola spesso non è in grado di affrontare i temi che importano di più ai ragazzi: chi è figo, chi ci sa fare, chi piace alle ragazze o ai ragazzi. Chi invece è un po’ diverso, magari cicciottello o in arrivo dal Paese sbagliato, manifestamente gay o chissà che altro, deve affrontare da solo il resto della classe, del gruppo, della compagnia che ti esalta o ti esclude a secondo del momento.
I dati Eurispes sul cyberbullismo sono prevedibili: il 28 per cento dei ragazzini tra gli 8 e i 17 anni ha subìto una minaccia online, ma secondo Microsoft – che ha commissionato un’indagine sul tema – l’80 per cento dei giovani che navigano ha ricevuto insulti o comportamenti offensivi via web. Vuol dire che l’aggressività dei ragazzi può risultare più esplosiva sui social media perché la virtualità del rapporto dà coraggio ai bulli? Di certo il ministero dell’Università ha speso 6 miliardi di euro in consulenze opache e tragicomiche pillole del sapere mentre una vera istruzione alle tematiche sensibili per l’adolescenza nell’era del rimbombo tecnologico resta un tabù. “Fin quando la scuola non adotterà l’educazione sessuale e l’educazione al corretto utilizzo dei media la società sarà pervasa da sacche di inciviltà e intolleranza – dichiara il sociologo Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei minori –. Anche le famiglie devono sentirsi responsabili , perchè non parlano con i figli, così come quelle istituzioni che per un inopportuno moralismo erigono barricate affinché le agenzie educative stiano alla larga da temi importanti. Senza tralasciare i gestori dei social network, che dovrebbero essere più attenti ai contenuti”.
Qui il tema si fa addirittura evanescente, perso nei circuiti del diritto cybernetico e delle norme internazionali. Esperti e sentenze pilota azzardano il concetto del diritto all’oblio, mentre le agenzie che ripuliscono il passato informatico offrono un servizio efficace quanto costoso. La capacità di un ragazzo di chiedere aiuto quando finisce sotto attacco dei coetanei non è il punto d’appoggio migliore. Sempre più spesso basta un brutto voto a scuola, il rifiuto di un bacio, l’assenza di un affetto vero a spegnere la forza di un adolescente. Il web è solo la piazza grande dove la fragilità può diventare il vuoto.