Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 23 Venerdì calendario

«NON CONTO NULLA» SEGRETI E DEBOLEZZE DEL PRINCIPE TRISTE

[Solo, all’oscuro delle trame politiche e troppo devoto al padre Il futuro «re di maggio» raccontato da Francesco di Campello, suo ufficiale d’ordinanza tra il ’43 e il ’44] –
Il conte Francesco di Cam­pello, maggiore dell’aeronautica, fu nominato uffi­ciale d’ordinanza di Umberto di Savoia il 15 gennaio 1943,e mantenne l’incarico fi­no al 20 giugno 1944. Fu dun­que a fianco di quel personag­gio pallido, malinconico e enigmatico che era l’erede al trono (poi luogotenente e infi­ne re) in momenti di estrema drammaticità per l’Italia e per la dinastia dei Savoia. Infatti il suo diario, pubblicato da Le Lettere e dotato d’una bella prefazione di Francesco Per­fetti, ha per titolo Un principe nella bufera (pagg. 124, euro 15). Campello era fin dall’in­fanzia un frequentatore assi­duo del Quirinale, i genitori avevano avuto incarichi proto­collari a corte e lui aveva giuo­cato, bambino, con il quasi coetaneo Umberto ( nato il 15 set­tembre 1904 Umberto, il 9 mag­gio 1905 il suo ufficiale d’ordi­nanza).
I protagonisti di queste me­morie sono due. Umberto di Savoia e il suo ufficiale d’ordi­nanza. Le annotazioni di que­st’ultimo non modificano, an­zi rafforzano, il giudizio stori­co sul «re di maggio». Scrupo­loso nell’assolvere i suoi dove­ri cerimoniali, rispettoso fino all’umiliazione della volontà paterna, tenuto all’oscuro di tutte le decisioni importanti ­e in quel periodo ne furono pre­se alcune dalle tragiche conse­guenze - rassegnato a comandare un fantomatico gruppo «armate sud» che aveva il suo quartier generale a Sessa Au­runca. Le armate sud, come si vide poi, esistevano solo sulla carta e se esistevano non ave­vano alcuna efficienza milita­re. Il rapporto tra Umberto e il conte di Campello è intessuto di espressioni sconsolate, di sorrisi condiscendenti, di ripe­tute affermazione secondo cui nulla si può fare che Sua Maestà il padre non voglia. Il Principe si rende conto di quanto la situazione sia dispe­rata, ma vive in una sorte di lim­bo fatto di formalismi e d’un continuo battere di tacchi. Ra­rissimamente si sbottona.
Come la volta in cui, consa­pevolmente o inconsapevolmente, fa dell’umorismo scon­solato. Il 18 marzo 1943 Um­berto passa in rassegna la divi­sione motorizzata Piave che «si è presentata benissimo». «In macchina, al ritorno - cito dal diario- ho espresso al prin­cipe questa mia impressione. Mi ha detto tristemente “pec­cato che sia l’unica”».
Il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo sfiducia Mussolini e­il re lo fa arrestare a Villa Sa­voia. Umberto non mai è al cor­rente di quanto bolle in pento­la, chiede informazioni a Cam­pello, anche lui disorientato, che annota. «Non mi dice nul­la, lo vedo soltanto sorridere con una gran tristezza». Il leit­motiv della tristezza e dell’im­potenza accompagna gli atti e i detti di Umberto. Che capi­sce, dopo la vergognosa cata­strofe dell’8 settembre, quan­to sarebbe auspicabile l’abdi­cazione di Vittorio Emanuele III, ma si guarda bene dal pro­porgliela.
Ho accennato all’altro prota­gonista, l’autore del diario. Francesco di Campello è un uomo coraggioso e leale che si ispira ai grandi valori patriotti­ci e religiosi. Pur nella sua mo­dernità di audace pilota, è un reazionario di vecchio stam­po. I suoi attacchi d’ira ri­sparmiano il fascismo (non rispar­miano invece i fa­scisti molli del crollo mussoli­niano). Odia il maresciallo Ba­doglio, da lui considerato un traditore piuttosto rimbecillito, e nel Regno del Sud auspica che il Re formi un governo tutto militare ( quasi che il vecchio mare­sciallo fosse un borghese). È a volte molto acuto nel giudica­re le persone, tuttavia non di­mostra alcuna avversione per i generaloni, Ambrosio e Roat­ta in particolare, che hanno ab­bandonato i posti di comando per fuggire a Brindisi con la corvetta Baionetta, e che là so­no stati incredibilmente con­fermati nei loro incarichi. I ge­neraloni hanno forgiato un esercito a loro immagine e somiglianza, ossia pomposo e debole. Ma con loro il conte è indulgente. È invece spietato fino all’invettiva nei confronti della classe politica che, tra meschinità e indecenze, si sta­va alla meglio riformando. In vista del congresso dei partiti antifascisti che sarebbe stato tenuto Bari dal 28 gennaio 1944 Campello usa la sua sfer­za: «Non capisco cosa rappre­sentino questi quattro cialtro­ni politicanti, capeggiati da Croce, Sforza e compagni». E poi, il 29 gennaio: «Il famoso congresso di Bari è andato co­me si prevedeva. Discorso di Sforza, infiorato di volgarità e di insulti. Questo lurido spor­caccione sarà una vera calami­tà nazionale. Vedremo ora a cosa approderanno le decisio­ni “storiche” prese da questi buffoni».
Trapela dalle pagine un tena­ce antisemitismo. Ad esempio il 31 luglio 1943, durante i qua­rantacinque giorni badoglia­ni; «Sulla stampa sfoghi di bas­sa vigliaccheria e girandola di nomi ebrei». Dopo l’armisti­zio sono elencate le udienze di Umberto: «Jung. Questi, benché ebreo, mi piace molto». «Memmo e Philipson, que­st’altra nobile figura del ghet­to sarà di grande aiuto per la causa italiana!».
I sarcasmi antipolitici del conte non erano tutti immeritati. Ma la sua soluzione dei problemi sembra consistere in una giunta militare dotata di pieni poteri. Poiché le cose andarono in altro modo, Fran­cesco di Campello lasciò la vi­ta militare - essendosi rifiuta­to di giurare fedeltà alla repub­blica­e fece altro. Con dignità e con successo.