Paolo Mastrolilli, La Stampa 25/11/2012, 25 novembre 2012
SMETTO DI SCRIVERE O FORSE NO
[Parla la narratrice canadese che nel nuovo libro Dear Life avverte: queste storie sono il mio finale autobiografico] –
Alice Munro come Philip Roth? Il sospetto ci è venuto perché nell’ultima collezione di storie che la scrittrice canadese ha appena pubblicato, Dear Life (Knopf; in Italia sarà tradotto l’anno prossimo per Einaudi), c’è una parte conclusiva autobiografica. Una nota, intitolata «Finale» in italiano, avverte i lettori: «Gli ultimi quattro lavori di questo libro non sono davvero delle storie. Formano una unità separata, che è autobiografica nei sentimenti, anche se non interamente tale nei fatti, in alcuni casi. Credo che siano le prime e le ultime cose - e le più vicine - che ho da dire sulla mia vita».
Allora abbiamo chiamato la Munro nella sua casa dell’Ontario, a due passi dal lago Huron, e le abbiamo chiesto: perché ha sentito il bisogno di pubblicare queste storie autobiografiche? «Perché ho 81 anni, e potrei non scrivere più. Mi è parso che questi pezzi fossero la maniera giusta di riassumere il tutto».
Alice è una simpatica signora di spirito, e quindi abbiamo insistito: non è che ci fa lo stesso scherzo di Philip Roth? «Beh, lui ha annunciato pubblicamente che ha smesso di scrivere, no? A meno che non succeda qualcosa di tremendo che lo obblighi a risedersi al tavolo. Io credo che queste siano le ultime righe che scrivo, anche se non lo prometto».
Non scherzi: vuole smettere davvero?
«È possibile. O magari continuerò a scrivere, ma cambiando completamente nome e carattere».
È il peso di questo lavoro, la fatica di scrivere, la stanchezza?
Perché ha avvertito i lettori che quelle quattro storie erano il suo «finale» autobiografico?
«Era giusto così, verso di loro. Queste storie - continuo a chiamarle così, ma non lo sono... sono pezzi, e volevo che si trovassero alla fine del mio lavoro. L’approccio è diverso. Le storie normali forse prendono spunto da un elemento della mia vita, ma poi ci gioco su e diventano idee con cui raccontare qualcosa. Queste invece non sono storie, e ho voluto che fossero così. A un certo punto senti il bisogno di scrivere qualcosa di diretto, per ricordare davvero cosa ti è successo».
Descrive il rapporto con suo padre, piuttosto difficile.
«I miei figli ora sono adulti, e ho capito quanto sia diverso il modo in cui i grandi vedono crescere i loro bambini, e viceversa. Dovevo fissare il mio ricordo, anche se sono sospettosa delle autobiografie, perché una sola persona racconta la sua versione».
Lei scrive che suo padre la picchiava.
«Certo, ma in quell’epoca era normale. Succedeva a tutti».
Racconta che da bambina aveva pensato di strangolare sua sorella, ogni notte. L’amava, ma temeva di avere un raptus e farle del male. Perciò ogni serasialzavadallettoesiallontanava.
«Fino a quando incontrai mio padre che non riusciva a dormire».
E cosa le disse?
«Che era normale. Pensieri così capitano a tutti, ma non significano che siamo cattivi e poi facciamo davvero del male».
Suo padre la picchiava, e poi le dava queste pillole di saggezza?
«Mi calmò e mi convinse. Fu una rivelazione, per me. Le persone anziane hanno questo genere di idee, ma ora è più comune parlarne con i bambini. Ho ricordato l’episodio per sottolineare quanto possa essere varia la gamma delle relazioni. Uno stesso rapporto può essere amoroso, rabbioso, ribelle».
Lei non andò a trovare sua madre quando era malata, e non andò al suo funerale. Lo rimpiange?
«Terribilmente, anche se la mia relazione con lei non era facile».
Perché?
«Non lo so, era così. Quando morì avevo ancora un rapporto molto forte con lei, ma vivevo lontano, i miei bambini erano piccoli, e l’idea di andarla a trovare mi sembrava troppo difficile. Ora penso che avrei dovuto sforzarmi e lo rimpiango, come facciamo spesso con le cose passate, che non possiamo più rimediare».
Lei scrive che ci raccontiamo un sacco di bugie: servono a sopravvivere?
«Sì, ci aiutano. Da vecchi, però, diventiamo più onesti e disposti a perdonare, perché abbiamo visto abbastanza della vita».
In uno dei pezzi autobiografici racconta la morte di Sandie, la ragazza che lavorava in casa vostra. Perché questo episodio?
«Fu la prima volta che entrai in contatto con la morte, davvero, e mi obbligarono ad andare al funerale e vedere il cadavere. Si pensava che i bambini dovessero partecipare, per imparare».
Era giusto?
«Non lo avrei mai fatto con i miei figli, ma allora era diverso. Le idee su come crescere i figli sono cambiate drammaticamente».
In meglio o in peggio?
«In meglio, per i bambini. Ora che sono vecchia, però, credo di aver capito l’essenza di questa differenza. Quando ero piccola gli adulti non avevano proprio il tempo di pensare ai sentimenti dei bambini: avevano troppo da fare per trovare il modo di campare».
Suo padre aveva un allevamento che andò fallito: quanto l’ha segnata la povertà?
«Stiamo parlando del periodo della Grande Depressione, avere difficoltà economiche era quasi la norma. Però mi ha aiutata, a adeguarmi e attraversare meglio i problemi».
Nelle sue storie l’amore è sempre complicato.
«È così, no? Magari cambia con l’età, però resta complesso. L’amore non è gentile, non è onesto, e non sempre contribuisce alla felicità, ma vallo a raccontare agli altri!».
Lei abita ancora dove è nata.
«Sì, sto a circa 35 miglia di distanza».
Perché?
«Questo è un bel posto per invecchiare. E poi amo il panorama, l’ambiente dell’Ontario. Ho la sensazione che sia il mio posto».
Si è riconciliata con le memorie della sua famiglia?
«Ho imparato a convivere col rimorso, come finiamo tutti».
Sentiva il bisogno di fare uscire questo suo sentimento?
«L’obiettivo della mia scrittura è sempre stato offrire una rivelazione su cosa è davvero la vita. Invecchiando, questo bisogno è aumentato».
E qual è la rivelazione su sé che ha scoperto in Dear Life ?
«Non ho una risposta precisa, anche se forse alla mia età dovrei».
Ci rivela almeno lo pseudonimo con cui continuerà a scrivere?
«No - scoppia a ridere Alice - ma restate sintonizzati».