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 2012  novembre 25 Domenica calendario

LA MOSSA DEL QUARTO GRADO

Pesava una dubbia fama sulle arti forensi. Vedi l’invettiva luterana: «Juristen böse Christen»; doctor Martinus li marchia cattivi cristiani, alludendo al cinismo pratico nel difendere qualunque causa. Se ne può discutere: a parte gli aspetti moralmente negativi rilevabili in ogni mestiere, nell’imperfetto mondo umano non è esigibile una tormentosa pratica delle virtù; il criterio formale del giusto sta nella conformità a procedure e massime. Il diritto romano riscoperto (XII secolo) porta alla luce un testo venerabile: i dottori lo considerano quasi pari alla Bibbia presupponendo che contenga tutto l’importante; qualcuno scioglie le questioni d’esegesi vegliando in chiesa. Dopo sei o sette secoli, squagliato ogni residuo mistico, il diritto viene codificandosi in formule artificiali a lunga durata. Cospicua impresa culturale, sul sedimento del razionalismo sei e settecentesco.
È triste privilegio italiano avere troncato questa linea evolutiva tra fine secolo e terzo millennio, quando uno scorridore d’affari torbidi venuto dal niente s’impadronisce dell’etere, fonda un impero mediatico e manipolando i cervelli, irrompe in politica. Non esistevano precedenti. Viene dai bassifondi d’un regime guasto: ha gusti da trivio, spregiatore dell’humanitas, istrione, ingordo, falsario, ineguagliabile nelle frodi (gli vengono d’istinto), sopraffattore; e siccome quel passato implica rischi penali, mette i piedi nel piatto normativo. Nei nove anni al governo punta al potere assoluto, confondendo politica e patrimonio: ha l’esecutivo in mano; e comanda gli organi legislativi attraverso una schiera d’automi. Sinora le norme erano struttura secolare: sub divo Berluscone diventano provvisori ukase; quando voglia, le taglia o contraffà. Imputato d’un delitto, abroga la norma incriminante (falso in bilancio, severamente punito negli ordinamenti sensibili all’etica mercantile: qui l’en plein riesce perfetto) o riconfigura la fattispecie legale (tira il colpo nell’affare Ruby). Accorcia i termini della prescrizione estinguendo i reati: s’arroga delle immunità; avventurosamente prosciolto, rende inappellabili i proscioglimenti; ritocca la disciplina delle prove, escludendo quelle che gli recano disturbo. Insomma, pratica un impudente uso avvocatesco della funzione legislativa, degradata a espediente d’autotutela. Così svaniscono i poteri separati. Padrone delle Camere, può ancora temere tribunali e corti ma i processi non nascono ex officio, sulla sola notitia criminis (avveniva nel rito inquisitorio descritto da Alberto Gandino, autore d’una famosa Summaduecentesca): poiché li instaura il pubblico ministero, basta impadronirsi della leva ancorando l’apparato requirente al governo. Era e rimane obiettivo capitale nei programmi d’Arcore. Et voilà, Re Lanterna monarca d’un regime incomparabilmente più forte dei vecchi, perché l’emissione televisiva entra nelle teste, mentre Re Sole doveva guadagnarsele con faticose guerres de magnificence.
Mancava poco che lo vedessimo sul trono. Non erano gli avversari a impedirglielo, inclini al compromesso, né il vertice, auspicante «larghe intese» e solidale nella fallita manovra immunitaria. S’è rovinato da solo, esibendosi qual è: l’elettorato gli volta le spalle prima che la crisi economica, da lui assurdamente negata, tocchi punte catastrofiche (vedi lo scacco milanese); dopo sei mesi i mercati l’abbattono. Gli anticorpi s’erano risvegliati ma la paura retrospettiva è forte: esistevano i presupposti d’una antipolitica signoria a base plebiscitaria; guai fosse stato un’oncia meno inetto, volgare, megalomane, impresentabile. Ma è ancora lì, ricchissimo, stregone dei media, forte in truppe mercenarie. I quasi vent’anni della sua era lasciano effetti permanenti, cominciando dalla cosiddetta industria culturale: ha imposto dei modelli; è il Dalai Lama d’un vario malaffare in colletto bianco; nella sua religione costituisce dogma una privacy criminofila; e rimane temibile agonista elettorale, perché non ha competitori nell’appello al peggio del ventre collettivo; rispetto a lui, i candidati delle primarie Pdl sono spaventapasseri. Non diamolo già sepolto. Quanto sia vivo, consta dall’ultima mossa. Chi ha memoria ricorda un Leitmotiv rumorosamente spacciato dall’orchestra. Gli araldi lo estraevano dalla manica in alternativa ricattatoria all’immunità (lo stile berlusconiano include forme gangsteristiche: in pose fotografiche erano status symbol Borsalino, occhi socchiusi, sigaretta): processo breve; decorsi dei termini, s’estingue con tutto quanto vi fosse successo; e se li stabiliva lui, commisurati alle sue congiunture. «L’Europa lo chiede», esclamavano. Era un mostro ignoto al giuspatologo. Inverso e altrettanto mostruoso l’ultimo capolavoro. La posta è alta, i 560 milioni del risarcimento liquidato dalla Corte d’appello milanese alla Cir: se il ricorso fosse respinto, sarebbe res iudicata; e dei senatori presentano l’emendamento contemplante l’inaudito quarto grado del processo. Idea da manicomio: attuata, scardina i residui della procedura; i giudizi saranno virtualmente eterni, purché uno abbia soldi da spendere.
Pereat mundus.
Forse l’affare muore lì, aberrante essendo il disegno persino tra disinvolti pragmatisti, o almeno speriamolo. Dignitari Pdl, catafratti dalla lunga anestesia morale, non vedono niente d’eccepibile. Osservatori cauti arrischiano l’ipotesi che al passo non siano estranei gl’interessi del padrone, mancato monarca dalle braccia ancora lunghe. Comunque finisca la commedia nera, B. resterà negli annali d’Italia, demiurgo e maestro d’enormi lobotomie cerebrali: l’emblema è uno spegnitoio, e come lo manovrano i continuatori; al diavolo chi pensa, tanto più se trascina categorie d’etica obsoleta.
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