Laura Anello, La Stampa 26/11/2012, 26 novembre 2012
Doveva essere la svolta per la giustizia civile oppressa da un fardello di sei milioni di cause pendenti e con tempi medi per arrivare a sentenza che superano i mille giorni
Doveva essere la svolta per la giustizia civile oppressa da un fardello di sei milioni di cause pendenti e con tempi medi per arrivare a sentenza che superano i mille giorni. Un’idea mutuata dal mondo anglosassone: l’obbligo di rivolgersi a un mediatore prima di andare davanti al giudice per chiedere ragione su questioni condominiali, eredità, risarcimenti per malasanità, incidenti stradali, contratti con le banche, locazioni, diffamazione a mezzo stampa e così via litigando. In tutto, il 30% delle materie di contenzioso civile. Un decreto legge, nel marzo del 2011, aveva avviato la rivoluzione, tra proteste e levate di scudi. Adesso, un anno e mezzo dopo, la Consulta in poche righe di un comunicato stampa lo ha dichiarato incostituzionale per «eccesso di delega» accogliendo l’esposto degli avvocati, i primi a scagliarsi contro il provvedimento. I giudici si sono limitati a constatare come il legislatore delegato (governo) non fosse stato autorizzato dal legislatore delegante (Parlamento) a introdurre nell’ordinamento giuridico l’obbligo di mediazione. Non una parola in più. Così, mentre tutti sono appesi al deposito della sentenza per comprenderne le motivazioni, la bocciatura si è abbattuta come un macigno sulla galassia che si era costituita intorno al business mediazione. Si parte dai 964 organismi che si sono accreditati al ministero per dirimere le controversie, entità nate come funghi in pochi mesi intorno ai pionieri più qualificati: Roma prima con 196, seconda Napoli con 128, terza Milano con 89. Si passa per i 371 enti di formazione nati in fretta e furia per istruire gli aspiranti mediatori. E si arriva ai quasi 50 mila «pacieri» che hanno conquistato il titolo con cinquanta ore di corso pagate da trecento a duemila euro. E che adesso, con la bocciatura della Consulta, rischiano di appenderselo al muro come ricordo. Sono in buona parte avvocati, ma anche laureati in qualsiasi disciplina, dalla Chimica alla Psicologia, dall’Agraria all’Architettura. O, ancora, semplici diplomati purché iscritti a un collegio professionale: dai geometri ai periti industriali. Un’armata di nuovi professionisti che, dopo essere stata contestata, adesso rischia di essere uccisa in culla. «Di fatto - dice l’avvocato Alessandro Palmigiano, responsabile del dipartimento Diritto della Fondazione Rosselli - gran parte dei mediatori è inadeguata professionalmente per gestire una controversia, a causa della scarsa qualità degli organismi di formazione e di mediazione. Questo, insieme con gli alti costi della mediazione, è stato il problema più grande che ha accompagnato la riforma in Italia. Negli Stati Uniti, la patria della risoluzione alternativa delle controversie, al tavolo siedono giudici in pensione o avvocati di prestigio». Insomma, anche questa riforma sarebbe nata all’italiana, come opportunità per far soldi organizzando corsi di formazione e per agitare chimere di lavoro davanti a migliaia di giovani disoccupati. E all’italiana rischia di finire, visto che il comunicato stampa della Corte costituzionale non può essere considerato un documento con valore giuridico. Così, in attesa del deposito della sentenza, formalmente è ancora in vigore la mediazione obbligatoria, ma nei tribunali tutto è immobile. E se il Parlamento non salverà i contenuti del decreto con una nuova legge, può abbattersi sullo Stato una valanga di richieste di risarcimento per il passato. Non certo per le mediazioni andate a buon fine ma per tutte quelle che sono fallite o ancora pendenti, potrebbe essere chiesta al ministero o agli organismi di mediazione la restituzione dei soldi spesi. Non pochi: da 65 a 10 mila euro per ogni transazione. Il Guardasigilli, Paola Severino, è stata tiepida nel difendere il decreto legge. Ma i suoi uffici, a marzo del 2012, avevano fatto il bilancio a un anno dall’avvio della rivoluzione: quasi 92 mila mediazioni avviate (dalle poco più di 5 mila dei primi due mesi alle oltre 12 mila del marzo scorso), 61 giorni per raggiungere un accordo a fronte dei 1066 del tribunale, ma una percentuale ancora minoritaria di casi in cui la controparte chiamata in causa accetta di sedersi al tavolo: 35 per cento. E, quando si avvia il confronto, la mediazione riesce quasi la metà delle volte (il 48 per cento). In valori assoluti, sono 16 mila contenziosi che hanno alleviato il carico di quattro milioni e mezzo di nuove cause che ogni anno arrivano nei tribunali italiani. Una goccia nell’oceano, insomma, «che potrebbe però essere l’inizio di una nuova cultura nel nostro Paese», dice Michele Ruvolo, magistrato in servizio a Palermo. Quanto agli avvocati, affiancano le due parti, anche se non è necessario, nell’84 per cento dei casi, a testimonianza che la mediazione di per sé non ha insidiato la categoria. Anzi, è stata una nuova occasione di lavoro, tanto che a fronte della battaglia campale dell’Ordine forense ci sono tanti giovani professionisti che hanno investito sul settore e che adesso pregano per il ritorno della mediazione obbligatoria. A buttarsi sulla nuova occasione offerta dalla riforma sono stati enti pubblici come Università e Camere di Commercio, Ordini professionali (a partire proprio dagli avvocati ma anche dai notai) ma anche colossi privati che hanno aperto sportelli in tutta Italia. E che ora tremano. Pregando che il Parlamento ci metta una pezza. Ma il tentativo è a rischio, in mancanza delle motivazioni della Consulta: se ha sanzionato soltanto l’eccesso di delega escludendo le altre argomentazioni degli avvocati, la questione è tecnica e il vuoto potrebbe essere riempito da un’iniziativa parlamentare. In caso contrario, entrerebbero in ballo il no all’obbligatorietà, all’onerosità, alla mancata garanzia di competenza dei mediatori. E allora sarebbe tutto l’impianto della riforma a essere azzerato. Intanto vigono il caos e l’incertezza più assoluti. E nelle cancellerie dei tribunali le montagne di fascicoli diventano sempre più alte. Alla faccia della riduzione dei tempi della giustizia.