Conchita Sannino, la Repubblica 26/11/2012, 26 novembre 2012
DAL NOSTRO INVIATO
TORRE ANNUNZIATA (NAPOLI)
— Per trovare lo scettro dei capi, ormai devi cercare le facce larghe di bambini. Feroci e acerbi. Gonfi di potere. Spesso, analfabeti. Due sono stati catturati in un giorno, giovanissimi e latitanti: Mariano Abete, ras della camorra di Scampia, designato dal padre-padrone del clan, Arcangelo. E Salvatore Paduano, rampollo di quell’inestirpabile dinastia dei Gionta che era già potente quando a Torre Annunziata fu condannato a morte il giornalista Giancarlo Siani. In due, non fanno quarantacinque anni. Ma l’elenco è lungo. Ed è ormai un fenomeno, che fa dire al procuratore aggiunto antimafia, Rosario Cantelmo: «C’è un turnover allarmante. Più arrestiamo i grandi, più si abbassa l’età dei nuovi capi e aumenta la loro pericolosità. E la società civile è indifferente, gira la testa. Così la battaglia diventa più difficile».
La loro identità sta nell’ultimo ossimoro di camorra: sono boss temuti e sono ragazzi. Una delle bande in guerra a Scampia, il gruppo “Bakù”, dal nome del vialone che ha per sfondo le Vele, è composta di “dissidenti” che hanno tra i 17 e i 21 anni. E c’è una prima fila di ventenni anche nella frangia della “Vanella Grassi”, nel vicino quartiere di Secondigliano. Mentre Mario Riccio, il genero di un altro boss in galera, è oggi il primo ventenne che nella storia del Viminale entra nella lista dei primi ricercati d’Italia: viene dai cartelli criminali che occupano i comuni a nord di Napoli. È quello che, fino a poche settimane fa, amava farsi vedere ancora in discoteca oppure in moto durante scorribande armate. Per mostrare chi comanda, da Melito a Mugnano. «È un pazzo, partecipa direttamente agli omicidi», dicono di lui i pentiti, vecchi luogotenenti spaventati dalla spregiudicatezza dei
pescetielli,
i pesci piccoli che non hanno memoria né equilibrio.
C’è chi obbedisce al sangue di famiglia. Come Paduano. Salvatore aveva cinque mesi di vita quando suo padre entrò nel carcere, e ne ha 22 appena compiuti quando lo braccano i carabinieri, l’altro giorno. È la prima cattura dopo 35 mesi ininterrotti di fuga:
senza un cellulare, senza una parola o un incontro, senza mai tradirsi. Si era nascosto ad Angri, una manciata di chilometri dalla sua Torre Annunziata, buco nero della camorra vesuviana, dove qualche anno fa due sedicenni stuprarono ripetutamente una turista
tedesca. Salvatore viveva nel Palazzo di famiglia, il cosiddetto Quadrilatero delle carceri dei Gionta, edificio-monstre in cui si continuano ad allevare generazioni di camorra: simbolo anche urbanistico di degrado e violenza che, al di là di promesse e manifesti, nessuna amministrazione cittadina
è riuscita ad abbattere.
Proprio da quel Palazzo, nel 2007, quand’era ancora minore, Salvatore si occupa della “logistica” di un omicidio, quello di Ettore Merlino, un “favore” da fare al clan Birra di Ercolano. Lui procura caschi e scooter ai killer: lo testimonia
un clamoroso video allegato agli atti del processo chiuso lo scorso luglio, registrato dalle stesse telecamere interne del Quadrilatero. Da lì inizia la sua carriera fulminea. A 19 anni è già condannato in primo grado ad 8 anni di carcere per associazione
mafiosa. Poco dopo, l’uomo che vede ogni tanto dietro i vetri di una sala colloqui, lo investe del ruolo di reggente: è suo padre, ergastolano. Che dal carcere gli detta i comandamenti per la latitanza. «Guaglio’, non ti devi drogare — gli impone — . Non devi seguire
la bella vita, farti vedere in giro. Non usare tecnologie e cellulari. Non perdere la testa per le femmine ». Salvatore pretende lo stesso. Quando scopre che uno dei suoi si droga, esponendolo al rischio di errori e distrazioni, lo porta sul tetto del Quadrilatero e gli spara a cinque centimetri da un fianco:
«Se lo fai di nuovo, sei morto».
Anche Mariano Abete a 13 anni è già “utile” al clan: il boss Arcangelo offre il figlio come “pegno” fino al buon esito di un omicidio. Ne ha 22 quando i militari lo scoprono, venerdì. Rannicchiato nel vano segreto di casa di mammà, a Scampia: capocosca ma pur sempre bamboccio. Nella cui casa, solo qualche giorno fa, sequestrano 100mila euro in contanti. A differenza loro, Mario Riccio, è ancora in fuga. È marito di una figlia di camorra, l’ultimogenita del narcotrafficante Cesare Pagano. Ma ne ha sposato prima di tutto i business milionari. Oggi gestisce, secondo le ricostruzioni della Dda, omicidi, vendette e partite di cocaina e “fumo” da piazzare anche in Sicilia e Lazio. Una latitanza che non può essere lunga. Qualche altro boss bambino, da qualche parte, si sta già scaldando per
rimpiazzarlo.