Raffaele La Capria, Corriere della Sera 26/11/2012, 26 novembre 2012
Negli scrittori italiani non c’è nessun sintomo che qualcuno di loro abbia appreso la lezione di Proust
Negli scrittori italiani non c’è nessun sintomo che qualcuno di loro abbia appreso la lezione di Proust. Sono tutti ancorati a una visione prevalentemente naturalistica. Si ignora l’importanza simbolica della struttura che sostituisce la trama, e quel tipo di intromissione saggistica che in Proust riempie la pagina, l’immaginazione e dà spessore alla rappresentazione. Nella grande letteratura del Novecento la legge formale che presiede alla costruzione dell’opera viene non solo dichiarata espressamente come credo estetico, ma viene a far parte essa stessa della narrazione. E così la «memoria involontaria» di Proust viene spiegata e raccontata nella famosa scena della madeleine, l’«epifania» di Joyce viene a far parte delle meditazioni (estetiche) di Stephen Dedalus, l’«altra dimensione» di Musil si conclude con la scena di Agathe e suo fratello Ulrich nel giardino. Da noi tutto questo non c’è, con poche eccezioni, ma venute dopo, in forma diversa, e influenzate dallo sperimentalismo novecentesco, come si vede in Gadda e poi in Arbasino. L’unico italiano in cui ho sentito risuonare il tono, e la sintassi direi, di Proust, è un critico, Giacomo Debenedetti. In lui, in quello che scrive, Proust diventa una passione e un’ossessione, se non una possessione. Lui è invaso da Proust, mentre proustianamente lo divora, lo adora e lo commenta. Ma non rinuncia mai alla distanza critica. La sua è una critica mimetica, che per entrare nel territorio dell’autore criticato ne prende le forme e i colori. Critica camaleontica? Kazimierz Brandys scrive che un giorno si accorse che gli avvenimenti della sua vita componevano un romanzo più appassionante di qualsiasi fiction. Per Proust si dovrebbe aggiungere che diventano l’affresco di un’epoca, la «Belle époque», durata fino all’inizio della prima guerra mondiale. Ed è in una Parigi sorvolata dagli zeppelin tedeschi e dai colpi di cannone della Grande Berta che si chiude À la Recherche du temps perdu. Sono tre i nomi del Novecento, Proust, Joyce e Musil (Kafka è per me un caso a parte). Fra i tre, Proust è il più umano, negli altri due la tecnica allontana, e poi hanno bisogno di un sostegno esterno, arbitrario. Joyce l’Odissea, in Musil la Cacania. Proust non ne ha bisogno, gli basta la Francia che lui guarda dalla sua cameretta insonorizzata. Proust è anche il più ardito nel capitolo della perversione, il bordello di Joyce non regge il confronto con quello di Proust, in quello di Proust si arriva sul ciglio dell’abisso di Sodoma, quello di Joyce sembra più un esercizio di stile. Quando Proust e Joyce si incontrarono non ebbero niente da dirsi, pochi monosillabi, l’uno ignorava il mondo dell’altro. «Mi dispiace di non conoscere l’opera del signor Joyce» disse Proust. «Non ho mai letto il signor Proust» rispose Joyce. Ed è vero, vivono in due mondi diversi, quello di Joyce è Dublino. Quello di Proust è Parigi, la società francese, perciò non si sentono gli odori e a volte i cattivi odori come in Joyce. Proust è un raffinato signore dalle belle maniere. L’altro è un genio ma non si cura delle belle maniere, Bloom mangia il rognone, si siede sul cesso, evacua, senza inibizioni, ed è questa mancanza di inibizioni del personaggio che fa grande il suo autore, rabelaisiano. Proust era talmente sviscerato nelle sue manifestazioni di affetto, la quantità delle persone alle quali lo manifestava con la stessa intensità era talmente grande, che qualcuno si domandò: era per bisogno di protezione che Proust si comportava così o perché era un grandissimo ipocrita? Naturalmente credo alla prima ipotesi. Ma come mai uno se lo immagina sempre solo e isolato nella sua cameretta, mentre invece il Proust che non si perdeva una serata, un ricevimento, una festa, non ci viene in mente per primo? E come mai conosceva le persone così a fondo? In realtà, partecipando a quelle serate, a quegli incontri, a quelle feste, non mancava mai di prendere appunti per il suo romanzo, non perdeva un gesto, una battuta, si documentava, oltre che fare vita mondana. Spesso Proust accusava i suoi mali, sembrava fragile, a volte spettrale, ma alcuni dei suoi amici avevano creato una parola per questo suo atteggiamento: moribondage. Forse intuivano che nonostante la sua apparenza, tanto fragile non era. E in realtà era infaticabile, dove lo trovava il tempo per scrivere tanto e darsi alla vita mondana è per me un mistero. Traduceva Ruskin, scriveva saggi critici, un romanzo, Jean Santeuil, e poi lettere, diari... Scriveva la Recherche e la correggeva nello stesso tempo. Dalle correzioni che Proust faceva alle bozze del suo romanzo — che soltanto a guardarle sulla pagina per gli infiniti richiami, riporti e ghirigori facevano impazzire i tipografi — si capisce che la pagina cresceva quasi per conto suo, come una pasta che sta lievitando. Mentre lui la scriveva la pagina si scriveva. E le sue correzioni nascevano da una mai soddisfatta osservazione del mondo, delle persone, della società, degli oggetti, che lui guardava con lo sguardo con cui guardava i campanili di Illiers, le sue epifanie... Il fratello di Proust pensava che solo una persona malata, costretta a stare a letto, potesse leggere un romanzo come la «Recherche» e dedicarle tutto il tempo che richiedeva. È bello quel longtemps all’inizio del libro, che contiene già in sé il tempo e la sua lunghezza. Gide non si accorse immediatamente della grandezza di quel libro, erano forse quegli omosessuali e le loro marchette, che Proust descriveva sempre vecchi e brutti, come insetti visti da entomologo, a disturbarlo; lui aveva una visione più estetica, aveva scritto «L’immoraliste», amava i bei ragazzi. Dove Proust vedeva, e sperimentava da complice, lo squallore del vizio, lui vedeva la libertà del desiderio. Quando è arrivato Proust in Italia? Indubbiamente il primo vero riconoscimento della grandezza, il primo capace di rivelarla, il primo ad essere invaso ed ossessionato dalla «Recherche» è stato, come s’è detto, Giacomo Debenedetti, nel 1925. Prima non se ne aveva sentore, Emilio Cecchi ne aveva fatto un accenno, senza troppo approfondire. Dunque dobbiamo a Debenedetti non solo l’annunciazione dell’avvento, per così dire, ma anche una specie di affascinata immedesimazione, una specie di affinità spirituale, tanto più notevole in quanto nessuno scrittore italiano, dopo, mostra nei suoi libri di aver ereditato qualcosa dalla lezione proustiana. Insomma, in Italia l’unico scrittore proustiano è un critico, un critico scrittore come appunto era Debenedetti. Ci sono grandi critici che si sono occupati di Proust, Pinter ne ha scritto la migliore biografia, e poi ne hanno parlato Gide, Rivière, Valery, Cocteau, Curtius, Mauriac, Ortega, Benjamin, da noi Macchia, Citati, la lista è lunghissima, ma credo che pochi di questi gli hanno dedicato la stessa devozione di Debenedetti, una devozione assoluta e sempre accompagnata da uno sguardo critico. Devoto ma mai soggiogato dalla devozione. E come mai Proust è arrivato da noi solo nel 1925? Lo avevano letto e ne avevano riconosciuto la grandezza a Londra, nel 1913, il «Times Literary Supplement» già ne scriveva. Lo aveva letto Edith Wharton, anche Henry James stava leggendo «Du côté de chez Swann»: «lo lesse d’un fiato con una curiosità e un’ammirazione appassionata... vi riconobbe una nuova maestria, una concezione e un disegno strutturale che gli era ancora incomprensibile; ma che tuttavia esisteva...». E questo scrisse Henry James direttamente a Proust, in una lettera in cui gli diceva che «Swann» era il più grande romanzo francese, dopo la Chartreuse di Stendhal. Tutti i volumi della Recherche uscirono da Gallimard nel 1919. Sei anni dopo, Giacomo Debenedetti se ne impossessava. Fatta eccezione per Debenedetti, Bertolucci, la Ginzburg (che tradusse «Swann») e pochi altri, c’è comunque un ritardo in Italia nella ricezione di Proust che si prolunga fino agli anni Cinquanta. È famosa la battuta di un giovane comunista che, uscito dalla guerra partigiana, alla domanda di un amico che gli chiedeva perché non aveva letto ancora Proust rispose: «’Un s’ebbe tempo». Poi negli anni Cinquanta ci fu la scoperta, tutti, i colti e gli incolti, leggevano Proust, e ricordo anch’io con divertimento come certi mondani conoscevano alla perfezione i nomi, i titoli, le parentele e tutte le circostanze in cui si incontravano i numerosissimi personaggi della Recherche. Era diventato quasi un gioco di società. Dopo un po’ anche Joyce subì la stessa sorte, e fu letto spesso più per sentito dire che per diretta conoscenza. Tra l’altro, data l’importanza della lingua nell’Ulisse, chi poteva dire di averlo letto veramente? Ma questo è un altro discorso. Per finire con un azzardo e un paradosso, visto che fin qui ho divagato saltando da una cosa all’altra, io credo che l’unico scrittore italiano che, non per la somiglianza ma per la densità della pagina e per la varietà delle osservazioni, potrebbe far pensare a una pagina di Proust sia Leopardi, il Leopardi dello Zibaldone. Adesso, fucilatemi.