Alessandro Piperno, la Lettura (Corriere della Sera) 25/11/2012, 25 novembre 2012
LA CAPANNA DI PHILIP ROTH
«Ho dedicato la vita ai romanzi. Li ho studiati, insegnati, ho scritto, letto. Escluso tutto il resto. È molto! Non provo più quel fanatico attaccamento alla scrittura provato per tutta la vita».
Traggo queste parole dall’ormai famigerata intervista (fin troppo drammatizzata: dopotutto, a sentirlo parlare, si direbbe che è più felice e sereno di noi) in cui Philip Roth dichiarava l’intenzione di non scrivere più una riga.
Nel leggerle, mi è tornato alla memoria un incontro che feci anni fa con Sarah Chalfant, uno degli agenti di Roth. Eravamo nell’ufficio newyorchese di Wylie. Ero emozionatissimo. Naturalmente non riuscii a tenermi, subissandola di domande sul mio eroe. Non c’era niente, allora, che più mi emozionasse della vita appartata di Philip Roth. Il desiderio di rintanarsi, il concedersi lo stretto indispensabile, l’ironia con cui gestiva la privacy: così romantico, e così funzionale alla vita di uno scrittore. Mi dicevo: l’intensità raggiunta dallo stile negli ultimi tempi, la prolificità, la seconda giovinezza artistica ancor più vigorosa della prima... Tutto ciò non è che il premio per tanta abnegazione. Che non sia questo il sogno americano sul quale la sua narrativa non la smette di interrogarsi? Se lasci stare il resto e ti impegni, prima o poi avrai la tua ricompensa. Era bello meditare con gravità sui grandi reclusi che avevano cambiato il corso della letteratura: da Montaigne a Flaubert, da Rousseau a Proust... Pensavo al desiderio di consacrarsi al lavoro che quel debosciato di Baudelaire aveva coltivato invano per tutta la vita. Ai chili di anfetamina ingurgitati da Sartre per non cedere alla stanchezza. Mi sembrava che Roth facesse parte della famiglia, anche se in un modo più sobrio e meno patologico rispetto ai suoi predecessori. In tanta dedizione ravvisavo qualcosa di molto borghese (nell’accezione peculiare che la parola avrebbe avuto per Thomas Mann, o per mio padre). Non è interessante quello che hai scritto, ciò che conta è quello che devi scrivere. Non lamentarti per gli errori commessi, prova a correggerli. Non startene lì a elucubrare su ciò che gli altri dicono del tuo lavoro, concentrati su quello che il tuo lavoro può darti in termini di autoconsapevolezza.
Sarah Chalfant, senza in alcun modo tradire il riserbo del suo celebre assistito, mi disse che non aveva mai conosciuto uno scrittore che concepisse il lavoro in modo altrettanto monastico: Philip (sì, così lo chiamava, come io chiamerei mio fratello) è semplicemente il suo lavoro.
Nel lontano 1983, a Hermione Lee che lo intervistava per la «Paris Review» un Roth cinquantenne confessava di lavorare «tutto il giorno, mattina e pomeriggio, sette giorni su sette». Ne Il fantasma esce di scena, Nathan Zuckerman, il più famoso alter ego rothiano, così descrive la sua vita: «Non vado a mangiare fuori, non vado al cinema, non guardo la televisione, non possiedo né un cellulare né un videoregistratore né un lettore dvd né un computer. Continuo a vivere nell’Era della Macchina da Scrivere e non ho idea di cosa sia il World Wide Web. Non mi prendo più il disturbo di votare. Scrivo tutto il giorno e spesso fino a notte fonda. Leggo, in particolare i libri che ho scoperto per la prima volta da studente, i capolavori della letteratura il cui potere su di me non è minore, e anzi in certi casi maggiore, di quanto lo fosse nei primi incontri che ho avuto con loro». Nelle ultime strazianti pagine di Ho sposato un comunista, Murray Ringald, ultranovantenne ex professore di liceo di Nathan, così ammonisce il suo ascetico allievo: «Guardati dall’utopia dell’isolamento. Guardati dall’utopia della capanna nel bosco, dell’oasi che protegge dalla rabbia e dal dolore».
Immagino (e spero) che la vita di Roth sia stata meno claustrale, e decisamente più divertente, di quella del suo alter ego. Ciò non di meno è evidente che l’«utopia della capanna nel bosco» abbia esercitato su di lui un fascino irresistibile. Fino a diventare uno degli argomenti segreti dei libri della maturità.
La cucina di Newark
Nell’intervista incriminata, Roth dice anche: «Non penso che libro più libro meno, la situazione cambi».
Come dargli torto?
Ti basta aprire uno dei suoi ventotto libri per ritrovarti nella cucina di una casetta in arenaria nei sobborghi del New Jersey alla fine degli anni 40. Due genitori che sgobbano e due figli maschi: teneri, curiosi, esuberanti. Amano lo sport non meno dello studio, le ragazze non meno degli amici. Programmati alla vittoria non meno di quanto siano impreparati alla sconfitta. È lì che tutto inizia. Ed è lì che tutto dovrà finire. Perché l’emancipazione, la totale emancipazione, è impossibile. Che non sia questo l’insegnamento del più emancipato degli scrittori americani? A un tratto, ne La controvita, durante un litigio tra fratelli, Henry Zuckerman chiede con sarcasmo a Nathan: «Dimmi una cosa, è mai possibile, almeno fuori dai tuoi libri, che tu abbia un quadro di riferimento un po’ più vasto del tavolo della nostra cucina di Newark?». Nathan, senza perdersi d’animo, gli risponde: «Il caso vuole che il tavolo di quella cucina di Newark sia la fonte di tutti i miei ricordi ebraici».
Ho l’impressione (tanto più ora, che ha chiuso coi romanzi) che Roth abbia impiegato metà dei suoi libri a tentare di alzarsi dal tavolo di quella cucina, e la metà restante provando a risedercisi.
L’ecosistema Roth
Balzac ha insegnato ai romanzieri che un singolo libro, per quanto bello e appassionante, non può e non deve bastare. Affinché l’arte rivaleggi con la vita occorre che tra ogni libro si crei una segreta promiscuità. Balzac era convinto che solo attraverso tale intreccio misterioso, sancito dalla trasmigrazione dei personaggi da un romanzo all’altro, si potesse restituire il senso del tempo.
Il caso-Roth dimostra quanto Balzac avesse ragione.
È con un brivido di piacere che il rothiano esperto ritrova l’infermiera Jinx Possesski a metà de Il teatro di Sabbath. L’avevamo lasciata a Gerusalemme, in Operazione Shylock, e ora è di nuovo qui, ad accudire Drenka Balich, malata terminale di cancro. E, a proposito, Drenka ha un figlio che fa il poliziotto. Si chiama Matthew: ne Il Teatro di Sabbath abbiamo acquisito sul suo conto informazioni interessanti. Eccolo ricomparire alla fine de La macchia umana: è l’agente che si occupa dell’annoso caso di Coleman Silk e Faunia Farley...
Credetemi se vi dico che di analoghi esempi potrei fornirvene almeno un’altra dozzina. Pensate alla giovane Amy Bellette di cui ci siamo tutti un po’ invaghiti ne Lo scrittore fantasma, che rispunta fuori — vecchia, smagrita, malata di cancro — ne Il fantasma esce di scena. Roth gioca con i ritorni balzacchiani. E lo fa meglio di Balzac. Il mondo di Balzac è troppo grande e intricato, e la sua ambizione onnicomprensiva. Roth si contenta. Dà prova di umiltà e furbizia. La sua unità di misura è la famiglia, non la società. Questo facilita il compito sia per lo scrittore che per il lettore. Conoscete nucleo sociale più commovente della famiglia?
Perdonate l’autocitazione
Ecco cosa osavo scrivere, con l’avventatezza dei ragazzi, una decina di anni fa, su «Nuovi Argomenti», prima rivista a ospitare le mie intemerate: «Se Roth fosse morto nel 1991, all’età di 58 anni, oggi sarebbe ricordato come un ottimo scrittore ebreo-americano famoso per un fortunatissimo bestseller sulla masturbazione e sulle mamme ebree. E per poco altro». Per valutare come un giudizio del genere, almeno allora, non fosse così scandaloso, sentite cosa aveva detto, in una intervista, Harold Bloom: «A Bellow contrapporrei un talento straordinario — Philip Roth. In Roth vedo una potenza sempre maggiore. E al momento, incredibile a dirsi, è poco apprezzato». Guarda caso queste parole di Bloom risalgono a quel fatidico ’91: alla vigilia della grande riscossa rothiana. Da notare come Bloom si indigni per il fatto che Roth sia diffusamente sottovalutato. Una lagnanza che oggi non avrebbe alcun senso, ma che nel ’91 invece...
Solo ora capisco quanto quel mio giudizio ingeneroso fosse sostanzialmente sbagliato. È tuttora evidente che lo zenit dell’arte rothiana si collochi temporalmente tra il 1991 in cui esce Patrimonio e il 2000, l’anno in cui La macchia umana chiude la cosiddetta «Trilogia americana». In quel decennio la prosa di Roth raggiunge un vigore michelangiolesco. Patrimonio, Operazione Shylock, Il teatro di Sabbath, Pastorale americana, Ho sposato un comunista, La macchia umana. Mi tremano i polpastrelli solo a trascrivere i titoli uno di seguito all’altro. Ma è altrettanto vero che tale fortezza non avrebbe la stessa maestosità se non poggiasse su fondamenta altrettanto robuste. Ciò di cui allora non tenevo conto è la stupefacente compattezza dell’opera di Roth, e l’itinerario che andava implacabilmente disegnando.
Everyman
Nelle edizioni americane dei libri di Roth trovate la lista completa delle sue opere suddivise in cicli romanzeschi: ci sono «I libri di Zuckerman», «I libri di Roth», «I libri di Kepesh». Ogni ciclo prende il nome dal protagonista. Per avere un’idea di quanto tali protagonisti si sovrappongono, pensate a un libro come I fatti, in cui Zuckerman e Roth arrivano a specchiarsi l’uno nell’altro. Roth adora moltiplicare le sue identità. Non per mero gusto dell’autoparodia, ma, si direbbe, per aprire nuovi fronti bellici. Qualche malevolo potrebbe capziosamente suggerire che a un narciso della sua risma un solo «io» non basti: che, per placarlo, ne occorrano una falange. Ma, battute a parte, la verità è che le sue identità servono tutte lo stesso padrone. Roth stesso una volta confessò: «Inventarmi biografie false, storie false, architettare un’esistenza semi-immaginaria a partire dal dramma reale della mia vita è la mia vita». Un programma estetico niente male. Una circolarità affascinante che spiega parecchio di Roth. Il guaio è che di norma all’egocentrismo si dà un’accezione negativa, dimenticando che può rivelarsi un insuperabile strumento di conoscenza. Lo è stato per Montaigne, per Chateaubriand, per Rousseau e per Stendhal... Perché non dovrebbe esserlo per Philip Roth? Roth fa suo il precetto ebraico secondo cui una sola vita vale il mondo intero. Quella sola vita lì, che ne contiene milioni di altre, è il terreno di scontro privilegiato da Roth. Il suo ring artistico.
Del resto, a dispetto delle apparenze, non è poi così difficile definire la vita di un individuo qualsiasi. Ciascuno di noi sa cosa significa nascere in un certo contesto: storico, sociale, politico, etnico... Ed esserne fatalmente condizionati. Tutti noi abbiamo avuto un padre e una madre. E, ammesso che le circostanze ci abbiano dato l’opportunità di condividere del tempo con loro, tutti noi sappiamo quanto poco ci abbia messo la loro insostituibilità a tramutarsi in ingerenza. D’altronde, solo assaporando fino in fondo la libertà della vita adulta puoi capire quanto avvincente sia il mondo originario dal quale ti sei affrancato. In un magnifico passo di La lezione di anatomia, così Roth parla della crisi creativa attraversata da Zuckerman quarantenne: «Senza un padre, una madre e una patria, non era più un romanziere. Non più un figlio, non era uno scrittore. Tutto ciò che lo galvanizzava si era estinto, senza lasciare nulla di inconfondibilmente suo e di nessun altro da rivendicare, da sfruttare, da ingrandire e da ricostruire». Una notazione (una confessione?) davvero interessante. Che dice parecchio della narrativa di Roth, o almeno di quella del primo periodo. Uno scrittore è tale solo se è un figlio. Un’idea settaria che Roth sembra aver mediato da Kafka. E che, per qualche tempo, deve averlo messo in crisi e bloccato, non meno di quanto abbia messo in crisi e bloccato Nathan Zuckerman. Deve essere stato davvero liberatorio scrivere, ad appena trentasei anni, un manifesto dell’irriverenza come Lamento di Portnoy. Deve essere stato uno spasso indossare i panni del pansessualista sfrenato. Il problema della narrativa ribellista è che una volta che le tue rivendicazioni libertarie sono state accolte non ti resta molto altro da scrivere. Per l’appunto: quando non hai più niente da «rivendicare», da «sfruttare», da «ingrandire», da «ricostruire» non sei più uno scrittore. Allora, se non vuoi trasformarti nella parodia di te stesso, non ti resta che diventare adulto. Non più un figlio da accudire, ma in un certo senso un padre che accudisce.
L’esame di maturità di Philip Roth è coinciso più o meno con la malattia e la morte del padre. Mi guarderei bene dall’attribuire un eccessivo valore a un evento biografico (per quanto fondamentale nella vita di un uomo) se non fosse stato lo stesso Roth a renderlo così artisticamente impellente. Non è casuale che la dedica di un libro di passaggio come La controvita reciti: «A mio padre che ha ottantacinque anni». Né che i tre libri seguenti (I fatti, Inganno e Patrimonio) siano esplicitamente autobiografici. Né che, di questi tre, l’ultimo sia la cronaca feroce e implacabile della morte del padre. Il patrimonio cui Roth allude è quello che toccherà a lui far fruttare nei capolavori della maturità. Solo allora la Newark della sua infanzia tornerà finalmente a concedersi, trasfigurata dal diaframma della nostalgia.
Il Nathan Zuckerman che ritroviamo in Pastorale americana è un uomo vecchio e pacificato. Un laborioso eremita della letteratura, reso impotente e incontinente da una devastante operazione alla prostata. Che grande idea quella di castrare il suo alter ego! Solo un Nathan con il pannolone può svestirsi del suo narcisismo, e scoprire l’oblatività dei grandi romanzieri. Come a tutti gli impotenti, infatti, a Nathan non resta altro che guardare. Ed è quello che fa. Avidamente. Ha imparato talmente bene a guardarsi dentro che ora entrare in rapporto empatico con gli altri gli viene a dir poco naturale. C’è un passo in Pastorale americana in cui tale cambio di prospettiva si esprime in una forma grammaticale. Un passaggio repentino dalla prima persona di Nathan alla terza persona dello Svedese, il vero protagonista del romanzo. È una specie di epifania. Un atto di metempsicosi artistica.
Nathan è alla quarantacinquesima riunione degli ex allievi della sua scuola; è in pista che balla con Joy, un tempo deliziosa compagna di scuola, ora una donna alle soglie della vecchiaia. È allora che Nathan inizia a sognare il suo romanzo: «Alle note mielate di Dream mi staccai da me stesso, mi isolai dal resto della compagnia e sognai... Sognai una cronaca realistica».
Se qualcuno mi chiedesse di spiegare in poche parole perché Pastorale americana è uno dei massimi capolavori della letteratura contemporanea, probabilmente mi limiterei a leggergli il paio di frasi che ho appena citato. La generosità con cui Roth si stacca da se stesso e si concede ai suoi personaggi. È tutto qui il segreto.
Drenka Balich, Dawn e Merry Levov, Rita Cohen, Eve Frame, Delphine Roux... Sono donne, donne partorite della fervida fantasia rothiana. Con un po’ di fortuna potrebbero ritrovarsi a fare la spesa nello stesso discount. Per quel che mi riguarda, hanno la stessa presenza scenica di Fedra o di Emma Bovary. E pensare che in giro c’è ancora chi fa passare Roth per un pericoloso misogino.
Alessandro Piperno