Paolo Di Stefano, la Lettura (Corriere della Sera) 25/11/2012, 25 novembre 2012
I NUOVI ANALFABETI
Ci sono gli analfabeti e ci sono gli «illetterati». Rimanendo nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, cioè tra i cittadini italiani considerati attivi, secondo il censimento del 2001, gli analfabeti sono 362 mila, gli alfabeti privi di titoli di studio sono 768 mila, le persone che vantano solo la licenza elementare sono quasi sei milioni e mezzo. Nel totale, circa il 20 per cento della popolazione è gravemente carente quanto al possesso degli strumenti culturali di base. Sono questi gli illetterati? Sì e no. Perché nella sfera che gli inglesi chiamano illiteracy si devono aggiungere coloro i quali, pur avendo percorso un regolare iter scolastico, rivelano una limitatissima capacità di utilizzare la scrittura e la lettura, di comporre e comprendere testi semplici. In realtà, l’analfabetismo funzionale (che comprende anche l’incapacità di interpretare grafici e tabelle e le difficoltà di calcolo) non è facilmente quantificabile; ma ci ha provato qualche anno fa l’Ocse con un progetto chiamato All (Adult Literacy and Lifeskills, ovvero «Letteratismo e abilità per la vita»). I risultati italiani, con percentuali alquanto allarmanti, sono stati elaborati e discussi da studiosi vari, specialmente linguisti e sociologi. C’è un grafico inequivocabile pubblicato nel rapporto All, a cura di Vittoria Gallina: il 46,1 per cento della popolazione tra i 16 e i 65 anni si trova al livello 1 della scala di prose literacy (comprensione di un testo in prosa), il 35,1 per cento al livello 2 e il 18,8 per cento ad un livello 3 o superiore. In ambito matematico, siamo messi ancora peggio se il 70 per cento non supera il livello 1.
Nel libro-intervista con Francesco Erbani La cultura degli italiani, Tullio De Mauro evoca un’indagine del Cede, l’istituto che valuta il sistema nazionale dell’istruzione, per chiarire una serie di cifre assolute: «Più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi 15 milioni sono semianalfabeti, altri 15 milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione e comunque sono ai margini inferiori delle capacità di comprensione e di calcolo necessarie in una società complessa e che voglia non solo dirsi, ma essere democratica». In definitiva, il 70 per cento per cento degli italiani non possiede le competenze «per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana». Sono numeri che, in una condizione economica ordinaria (e in un Paese consapevole), farebbero scattare subito l’emergenza sociale.
Se le cifre del malessere culturale, pur leggermente variabili, denotano una tendenza inquietante, le diagnosi sono ben più complicate. Per non dire delle terapie, che richiederebbero in primo luogo una sensibilità politica al momento del tutto assente. È ciò che sostiene il linguista Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca: «Mentre l’analfabetismo pieno è facile da documentare, l’analfabetismo di ritorno è sfuggente: forse il dato che potrebbe rivelare il tasso di competenza testuale è la lettura dei giornali. Va tenuto presente però che l’analfabetismo funzionale emerge quando non si riesce a interpretare un testo scritto o orale, sia esso uno spot, un discorso politico, un articolo di giornale». A Bookcity, che si è svolto la settimana scorsa a Milano, il presidente dei bibliotecari Stefano Parise richiamava il dovere crescente, per le biblioteche pubbliche, di adeguarsi alle diffuse esigenze di pronto soccorso socio-culturale. Da anni, del resto, Antonella Agnoli lavora in questo campo: la biblioteca non è più soltanto uno spazio per la lettura individuale, ma anche una sorta di presidio territoriale cui ci si rivolge per la compilazione di moduli, per la scrittura di lettere, di proposte di impiego, di curriculum eccetera. Stiamo scivolando indietro? «Il fatto grave — dice Sabatini — è che non stiamo andando avanti. Per esempio, c’è un allarme nel corpo forense nazionale: gli avvocati non sanno scrivere e non sanno parlare, non dominano la lingua». La prima osservazione è in una domanda ovvia: ma leggeranno altro che non siano i documenti giuridici e giudiziari? «Credo che vada capovolto il rapporto di causa-effetto. L’amore della lettura viene dopo: se la scuola non è riuscita ad abituare all’operazione di decodifica del testo, leggere un libro costa fatica». Si torna sempre allo stesso punto: la radice del male è la scuola? «Gli insegnanti ignorano la linguistica, non sanno che cosa significa interpretare un testo, si affidano alla critica esterna, all’inquadramento storico, alle prefazioni, ma non si preoccupano di capire come funziona la lingua, lo stile… E le grammatiche sono zeppe di errori». Sembra archeologia, parlare di grammatiche scolastiche in tempi di «tablettizzazione» e navigazione digitale diffusa. «Bisognerebbe saper distinguere: la Rete per la reperibilità dei testi è molto utile. Ma ciò che leggi sullo schermo scivola via: la lettura richiede la concentrazione che un tablet non può dare. Lo strumento digitale diffuso nella scuola, come vuole il ministro, sarà nefasto. Per questioni sensoriali, lo scorrere della pagina sullo schermo fa perdere la coesione e la coerenza del testo legate alla stabilità del messaggio e al movimento dell’occhio. Credi di leggere, ma in realtà non comprendi e non sviluppi spirito critico. D’altra parte è pur vero che certa paraletteratura che esce nei libri serve solo a esercitare il muscolo oculare».
Forse nessuno più di Gino Roncaglia, che insegna Informatica applicata alle discipline umanistiche, ha indagato le dinamiche della lettura nel passaggio dalla carta all’era digitale, cioè ne La quarta rivoluzione, titolo di un suo saggio. «Più che di un mondo di analfabeti parlerei di un mondo disabituato alla lettura complessa, perché i testi che circolano nel web sono per lo più brevi, frammentari, semplici e informali». Quel che viene meno è il discorso argomentativo, costruito con sofisticate architetture di sintassi e di pensiero. «La Rete è una realtà ancora molto giovane, ha elaborato una sua complessità orizzontale e non verticale, ma questo è un aspetto che progressivamente potrà cambiare, poiché ci si sta rendendo conto della necessità di strumenti più articolati. Dai cinguettii di Twitter si vanno sviluppando strutture per concatenazioni più vaste: per esempio, Mash-up è un’applicazione che mescola contenuti diversi e Storify permette di creare delle storie complesse collegando materiali di diversa provenienza. Siamo all’inizio». Una società di cacciatori-raccoglitori che non è ancora arrivata all’età delle cattedrali, dice Roncaglia: «Non credo che la frammentarietà del web sia strutturale, ma certo la forma paradigmatica di complessità e completezza rimane quella del libro e ritengo che si debba combattere contro la sua scomparsa. La scuola ha una enorme responsabilità e c’è molta confusione nell’adozione dei testi digitali. Va bene lavorare con materiali di rete e modulari, ma il libro di testo come filo conduttore autorevole va conservato. L’autorevolezza testuale non è autoritaria». Resta da colmare la distanza di linguaggio tra molti testi scritti e lo slang ormai diffuso: «Oltre alla lontananza dal tipo di testualità, c’è un divario culturale: non è solo la mancanza di dominio sintattico a porre problemi nella lettura di un giornale o nei discorsi politici, per esempio, ma anche i contenuti, spesso lontani dall’orizzonte di interessi e di conoscenze comuni».
Bisogna parlare con Graziella Priulla, docente di Sociologia della comunicazione a Catania, per avere uno sguardo ravvicinato sull’Italia dell’ignoranza, come ha intitolato un suo recente saggio. Priulla punta il dito sull’incapacità diffusa di modulare discorsi argomentativi: «I bambini allattati con il mezzo visivo, tv o computer, hanno un rapporto con la parola viscerale, diretto, frammentato e semplicistico. E se la scuola non ha più autorevolezza e credibilità, non può certo rimediare. I miei studenti universitari fanno errori ortografici, grammaticali e sintattici, ma soprattutto ignorano il ragionamento complesso. Niente ipotassi, abolizione delle subordinate e dei nessi causali tra proposizioni. D’altra parte sono abituati alla digitazione veloce e la miniaturizzazione degli strumenti non aiuta». Una miscela di problemi linguistici e socio-culturali: «C’è una cesura abissale con il passato, la storia li lascia indifferenti. Se affronto il conflitto mediorientale parlando dei bambini morti a Gaza, gli studenti partecipano, ma i motivi della guerra non interessano. L’attenzione è attratta da questioni emotive che esaltano la proiezione narcisistica. La cultura grammaticalizzata, le regole, l’interpretazione intellettuale, l’astrazione, la logica, lo sguardo d’insieme sono archeologia: il 90 per cento dei ventenni apprezza solo il dettaglio, il frammento, la concretezza, l’emotività». Problemi che riguardano anche gli adulti, a quanto pare: «Basta guardare le prestazioni nei concorsi di magistrati, presidi, insegnanti…».
Paolo Di Stefano