Alberto Arbasino, Corriere della Sera 25/11/2012, 25 novembre 2012
IL MIO STRAVINSKIJ PERFETTO
Piva, piva, l’oli d’uliva… Che sorpresa, ascoltare quell’atavica nenia natalizia per bimbi lombardi grulli, a Villa Madama, a Roma, col coro multinazionale delle Consorti degli Affari Esteri... Non si giunge tuttavia all’«oli stragià», cioè rovesciato. Poi, a pranzo nella sala di Giulio Romano, sui soffitti danzano putti e nastri come nella più antica Schifanoia ferrarese. Ma al tavolo «Esculapio», dove sedevo, figurava al centro non un vegliardo Ammantellato, ma un giovane atleta, forse Mercurio.
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All’ Opéra Garnier parigina, ecco una ennesima rappresentazione del Rake’s Progress di Stravinskij. Lì ci si può considerare veterani, avendone ascoltato la «prima» alla Scala, l’8 dicembre 1951. In circostanze molto minori: la sera prima, con Victor De Sabata direttore, grandioso successo della Callas nei Vespri Siciliani inaugurali. E cinque sere dopo, lo stesso De Sabata avrebbe trionfato in un epocale Tristano e Isotta, con Max Lorenz e la Grob Prandl. Siccome Stravinskij aveva firmato contratti sia con la Biennale veneziana sia con la Scala, si presentò alla Fenice in settembre una «prima assoluta» diretta dall’Autore coi mirabili testi di Auden e Kallmann, mentre qui a Milano ecco una «prima edizione italiana», e dunque almeno metà dell’original cast: alle prese con una traduzione, inclusa Elisabeth Schwarzkopf che sarebbe stata in gennaio una Marescialla sublime nell’indimenticabile Rosenkavalier tutto-Karajan. Accanto a una Norma con la Callas.
L’allestimento (già veneziano) di Gianni Ratto apparve modestino, paragonato agli attigui di Casorati, Sironi, Picasso, Léonor, Fini, Nicola Benois. Molto meglio, a Salisburgo, col sopraffino tenorino Jerry Hadley, una messinscena tutta pittorica di Peter Mussbach e Jörg Immendorff, la fidanzata-modella ritratta in un East Village tipo Andy Warhol, il babbo truccato da Joseph Beuys, e il gigantesco Monte Pederson quale Nick Shadow in vesti di Daddy Warbucks, protettore di Little Orphan Annie in popolari cartoons, fra giocattoli, scimmiotti, cappellucci; e un patetico aeroplanino praticabile, per le invocazioni di «vorrei volar».
Vi fu poi la deplorevole moda fine-millennio di qualunque opera (inclusa questa) ambientata in manicomi, ospedali, carceri, tra Cottolengo e Lombroso e Foucault e coatti che si grattano la capoccia dopo le botte. Ammucchiate multirazziali di gruppo su ogni nuovo detenuto, o con le guardiane sui tavolacci del Lazzaretto... Difficile (per noi) immaginare anche una Lucia Mondella che giunge dalla Brianza secentesca in via Cappuccio, e lì trova il suo Renzo con una donnona in portantina, e scopre che è sua moglie, per di più con la barba (forse un travestito), e quindi viene allontanata quale baggiana dall’ex-promesso sposo, nella Milano barocca e borromea... E se poi (come qui), il Demonio fosse acconciato come il Mefistofele di Boito o di Gustav Gründgens, cosa dedurne? Che il Diavolo in persona sia full time impegnato a dannare un poveraccio portandolo in giro fra Mamma Oca e Baba la Turca? Oppure qualunque babbeo provinciale tra la folla ha dentro o dietro un suo demonietto che lo spinge ad accoppiamenti con turpi vegliarde e fenomeni da baraccone?
La messinscena più perfetta si deve a David Hockney, per Glyndebourne, rifacendo genialmente quadrettati i celebri dipinti di William Hogarth che appunto ispirarono Stravinskij. Si vide al Lirico milanese trent’anni fa, con direzione di Riccardo Chailly. E non più in quella versione italiana ove il protagonista Tom Rakewell diventava «Tom Birba». Qui all’Opéra parigina, si contravviene a un famoso precetto di Luchino Visconti, «mai il bianco in scena, perché "spara" troppo». I bianchi e i neri qui sparano parecchio, sotto luci crudeli, fra ingrandimenti vetrinistici e pubblicitari di neon candidi in moto frequente. Come nel Gattopardo visconteo, però, qui le tende sventolano parecchio mentre Tom e Anne si accoppiano abbondantemente, tra le tende sventolanti, nel disinteresse del genitore, e con l’esito di una vistosa gravidanza successiva. Parità nei libertinaggi? L’orgia comunque risulta tumultuosa e disciplinata, con paillettes, giarrettiere, giocolieri, pagliacci, teste d’animali, cavalli, scheletri, schiavi neri. Tutti in stile Marlene, Angelo azzurro. Lei, Ekaterina Siurina, in posture che rammentano Cathy Berberian. Anche se congedata come «lattaia», portando un lattante nella carrozzina. Un insieme cupo, in complesso. Particolarmente, in quei responsori di iniziazione chiesastica o goliardica, coi misteri più o meno gaudiosi di San Cirillo e Santa Agnese, eccetera.
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Trionfo invece per Désirée Rancatore, un po’ bambola meccanica e un po’ birichino di papà, giustamente, all’Opéra-Bastille nella Fille du régiment donizettiana, come d’altronde già alla Scala, ove senza precedenti contemporanei il meraviglioso Juan Diego Flórez dovette concedere un meraviglioso bis dichiarandosi al contempo «militaire et mari». Il tenore di qui è invece un tradizionale «barilotto», piuttosto goffo quale tonto tirolese Tonio. Trionfa la convenzionale retorica di «O mes amis» con brindisi, e rataplan, e galletto gallico. Ma l’entrata dei vecchietti tremolacchianti arriva diretta dal supremo Felsenstein dei Racconti di Hoffmann, e come Duchessa de’ Crakentorp giunge non la memorabile Anna Proclemer bensì (con tutto il suo portamento) Felicity Lott, già solenne protagonista del Rosenkavalier e del Rake’s Progress.
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Quante memorie ora tornano, anche per l’esecuzione dell’estrema Ouverture per un teatro di Hans Werner Henze, diretta da Pappano a Santa Cecilia. Mezzo secolo fa si era insieme a Heidelberg, con Hans e appunto Auden e Kallmann, per la prima a Schwetzingen della loro opera Elegia per giovani amanti. E Auden balbettava nel suo accento chic innumerevoli storie di vecchie americane con giovani pescatori di Ischia, finite generalmente malissimo. E storielle sugli elefanti: un topo e un’elefantessa vanno a sposarsi, «perché dobbiamo» confessa lei arrossendo allo stato civile. E un giovanotto chiede a uno psicanalista se è possibile innamorarsi di un elefante. No, è la risposta: tutt’al più, un’infatuazione passeggera. E allora, altra domanda: come sbarazzarsi di un anello di fidanzamento molto molto grosso?
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Nel centenario di John Cage, domande insistenti. Sarà una «ambient music» con mancanza di aleatorietà e di happening? Spettatori attuali come osservatori babbei privi di tao e incapaci di spontaneizzarsi creativamente? O partecipanti attivi della performance, testimoni e garanti dopo tanto Brecht e Artaud del completamento di un’opera non già chiusa e morta bensì aperta? Dunque parlare, passeggiare, uscire?
Alberto Arbasino