Maria Lombardi, Il Messaggero 25/11/2012, 25 novembre 2012
LEGO, GIOCO DA MANAGER
Pensare con le mani, come fanno i bambini. Affidarsi al gesto prima ancora che all’idea, quella verrà da sola. Lasciarsi guidare dai mattoncini che si incastrano e dalle dita che inventano forme per uscire da un dilemma. Tornare piccoli, a cinque, sei anni di età, quando giocando si è artisti e costruttori, artigiani della fantasia: si crea senza sapere cosa e poi a quella scultura di plastica si attribuisce un senso, è un ponte una macchina una casa, importa quel che si vede non quel che è. Miracolo dei Lego, un gioco serio.
Blocchetti colorati senza tempo, stimolano i bimbi con le infinite possibilità di combinazione, e aiutano i grandi che schiavi delle parole e dei ragionamenti faticano a vedere le soluzioni. Li usano i manager per migliorare il lavoro di squadra, li sparpagliano sul tavolo i capi d’azienda che intendono rendere più veloce la comunicazione, li incastrano i dirigenti a caccia di nuove strategie. E, perché no?, possono utilizzarli anche le coppie per ristabilire un dialogo o le famiglie litigiose.
LE SITUAZIONI
Gli omini gialli snodabili e i pezzetti colorati di origine danese, che ormai hanno 80 anni, sono una scorciatoia per uscire dalle crisi, di qualsiasi genere. Il segreto? «Combinare concretezza e immaginazione, far riemergere l’intelligenza artigianale, quella che esercitano i bambini nei primi anni di vita e poi dimenticano con gli studi scolastici». Leonardo Previ, docente di storia economica della cultura all’università Cattolica di Milano, insegna a pensare con i mattoncini. È stato il primo a importare in Italia nel 2003 il metodo «Lego Serious play» e a far giocare gli adulti. «Un successo molto forte, sempre più società ricorrono a questa metodologia per accelerare la comunicazione e le decisioni strategiche nelle aziende».
Chiacchiere su chiacchiere senza arrivare a nulla: quante riunioni finiscono così. Invece con i mattoncini non si parla ma si fa. «Lasciamo che siano le mani a offrire una rappresentazione a un tema astratto».
«È così che fanno i bambini: costruiscono e poi attribuiscono un significato a quello che hanno fatto». Al metodo Previ ha appena dedicato una sezione del libro Lego story (edizioni Egea). «Funziona, oltre a essere estremamente divertente e a ricondurre il gioco nelle aziende». Immaginate la sorpresa di dirigenti e manager abituati ai grafici e relazione alle prese con 30mila mattoncini da incastrare. «È stata una grande soddisfazione rivedere a distanza di anni sul tavolo di un manager il modellino Lego che aveva fatto durante un workshop».
LE CREAZIONI
Uno dei primi esercizi è: crea il collega da incubo. Sei minuti di tempo per realizzare la costruzione con i mattoncini, non si chiede di raffigurare una persona in particolare ma un comportamento, un gesto che risulta sgradevole. «Il collega da incubo più gettonato – racconta Previ – è un parallelepipedo chiuso e scuro, dà l’idea di una persona che non vuole condividere. Oppure una piramide con un omino che guarda gli altri dall’alto».
Il metodo Lego aiuta anche a esprimere i sentimenti. Ne sanno qualcosa alcuni studenti della prima media che con i mattoncini sono riusciti a mostrare le loro difficoltà nella scuola: hanno costruito fantasmi e scheletri.
Pochissime le regole. Non fermarsi a pensare perché il gioco è immediatezza più che riflessione, l’idea appare e non va cercata, i sentieri della mente a volte sono labirinti e allontanano dal traguardo. Osservare quel che si è fatto e poi raccontarlo. Non costruire mai da soli, il confronto è decisivo. Tutto si può dire con i mattoncini, anche parole d’amore.
Basta prenderla come un gioco e seguire la magia dei Lego. Li inventò nel 1932 uno psicologo inglese, Hilary Fisher Page. Ma a lanciarli nel mercato con questo nome – era il 1949 – fu un’industria di giocattoli danese, l’aveva fondata anni prima a Billund, un paesino dello Jutland, il mastro carpentiere Ole Kirk Kristiansen. All’inizio produceva solo oggetti di legno ma dopo la guerra non era semplice farlo arrivare dalla Svezia e allora si passò alla plastica. Il nome non cambiò: Lego, una contrazione di leg godt, «gioca bene». E chi gioca bene, vive e lavora meglio. Il merito è solo delle mani.