Alessandro Zaccuri, Avvenire 25/11/2012, 25 novembre 2012
LA GEOGRAFIA DI DANTE
Quali fossero le convinzioni cosmologiche di Dante ce lo ha spiegato, qualche anno fa, il fisico rumeno Horia-Roman Patapievici in un libro suggestivo fin dal titolo (Gli occhi di Beatrice, Bruno Mondadori). Ora però è il momento di tornare sul nostro pianeta, per cercare di ricostruire la «geografia» dell’Alighieri. Scienza sempre un po’ negletta, questa che riguarda la distribuzione delle acque e delle terre (tanto per rifarsi a un’operetta dantesca, la Questio de aqua et terra, appunto), ma che da sempre riveste un ruolo fondamentale anche in letteratura, come sosteneva in tempi non sospetti il grande Carlo Dionisotti e come, più di recente, hanno ribadito le polemiche suscitate dall’Atlante della letteratura italiana approntato da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà per Einaudi.
La geografia di Dante, dunque. Se ne occupa, con dovizia di informazioni e abbondanza di materiale iconografico, il linguista Francesco Bruni in uno dei saggi che fanno da corredo alla nuova edizione del De vulgari eloquentia in uscita in questi giorni da Salerno (pagine CXXVI + 670, euro 49). Volume di per sé importante, inserito per di più in un’impresa che promette di essere addirittura memorabile. Parliamo della Necod, acronimo che sta per «Nuova edizione commentate delle opere di Dante».
La promuove il Centro Pio Rajna, la coordina l’italianista Enrico Malato, la realizza una folta équipe di specialisti che, a quasi un secolo dalla celebre «Edizione del Centenario» allestita nel 1921 da Michele Barbi, si sono dati l’obiettivo di accompagnare i testi del poeta– sempre presentati nella lezione più affidabile dal punto di vista filologico – con apparati di prim’ordine. Oltre alle note a piè di pagina, peraltro fittissime, ci sono introduzioni ampie e aggiornate, antologie delle opere alle quali Dante fa riferimento, illustrazioni e riproduzioni in fac simile.
Prendiamo il De vulgari eloquentia, che insieme con i controversi Fiore e Detto d’Amore inaugura le uscite della Necod. Annunciato nel Convivio e lasciato incompiuto dall’autore (anche se Dante, in effetti, potrebbe essersi spinto più in là nell’elaborazione rispetto al testo tramandato dai manoscritti in nostro possesso), il trattato che fonda la legittimità letteraria del volgare si è avvalso della curatela di Enrico Fenzi, con il quale hanno collaborato Luciano Formisano e Francesco Montuori. La prima metà del cospicuo volume è occupata dal De vulgari eloquentia (originale latino, traduzione, relativi commenti), mentre nella seconda parte trovano spazio le composizioni poetiche alle quali Dante fa riferimento nel corso della sua esposizione. Una piccola biblioteca in provenzale, francese e italiano, alla quale si aggiunge la versione cinquecentesca del trattato a opera di Giovan Giorgio Trissino, il linguista vicentino al quale si deve l’eccentrica proposta di introdurre nell’alfabeto italiano un paio di lettere provenienti da quello greco.
A fare da cerniera fra le due sezioni, ecco il saggio di Bruni, meticoloso nell’enumerare le fonti geografiche che Dante poi rielaborerà come suo solito con estro inimitabile. La prima notazione, di solito trascurata, riguarda la disposizione dell’asse terrestre. La longitudine Nord-Sud è infatti un’acquisizione moderna, per la cultura antica e medievale l’Est sta in alto e l’Ovest in basso. Le implicazioni simboliche non sono difficili da cogliere, se si pensa che nel mondo cristiano l’Oriente coincide con la città di Gerusalemme, ma si tratta pur sempre di una simbologia che – sottolinea Bruni – corrisponde a un dato di natura. O, meglio, a quello che Dante considera un dato di natura. Più che ai quattro punti cardinali, per esempio, il poeta attribuisce valore ai tre continenti, quanti erano quelli conosciuti alla sua epoca: Asia, Africa ed Europa. Separati fra loro dal «mare in mezzo alle terre» (è l’etimologia di Mediterraneum) e circondati dall’Oceano, rendono ragione del modello T-O, che si ritrova nella cartografia antica e sul quale, nel passaggio fra Tre e Quattrocento, ancora si poggia La Sfera , fortunato poemetto di argomento geografico del fiorentino Goro Dati. Fondamentale per l’architettura della Commedia, la numerologia trinitaria svolge una funzione decisiva anche all’interno del De vulgari eloquentia. Tre, infatti, sono i ceppi linguistici che Dante ravvisa in Europa, il cui idioma tripharium è composto dal greco, dominante a Oriente, dal vasto agglomerato dello iò (questa sarebbe, secondo l’Alighieri, la particella affermativa comune ai teutoni e agli slavi, ai sassoni e agli ungheresi) e dai popoli del Meridione, la cui unità linguistica si presenta, al tempo di Dante, ulteriormente tripartita. È la ben nota suddivisione fra parlata d’ oc (il provenzale, che nella fattispecie viene esteso fino alla Spagna), d’oïl (il francese) e infine l’Italia, «il bel paese là dove il sì suona».
In quest’ultimo, che è il territorio specifico dell’indagine condotta nel De vulgari eloquentia, la tripartizione non è più applicabile. Muovendosi sempre lungo l’asse Ovest-Est, Dante ravvisa non meno di quattordici varietà regionali degne di menzione, nessuna delle quali corrisponde ai requisiti di quel «volgare illustre» che – con una similitudine tratta dal mito di Dioniso – viene assimilato alla pantera, animale magnifico e sfuggente, che sparge ovunque il suo profumo senza mai mostrarsi agli inseguitori. Secondo Bruni, la «genialità profetica» di Dante «sta nell’aver individuato uno spazio linguistico italiano quando un’unità di lingua ancora non era in vista».
Una visione che, nel suo puntuale saggio introduttivo, Enrico Fenzi non esita a definire «politica». Nel momento in cui il volgare illustre viene fatto coincidere con la lingua adoperata dai maggiori poeti che hanno preceduto e che accompagnano l’avventura dantesca, questa «accertata esistenza» pone «il problema di una corrispondente unità politica perché ne costituisce il primo indiscutibile “principio di realtà”: ne dimostra il fondamento civile, la invoca, la pretende...». Strettamente legato alle vicissitudini politiche di Dante, osserva Fenzi, è anche il concorso di elementi che permettono al poeta di assumere una posizione tanto indipendente.
Dal suo essere esule deriva una conoscenza capillare delle differenze linguistiche nei vari ambiti locali, da lui superata in una prospettiva morale (di cantor rectitudinis, precisa lo studioso) che contraddice ogni pretesa municipalista. A Dante, insomma, non bastano le «piccole patrie» corrispondenti alle diverse parlare cittadine.
Ha bisogno di riconoscersi in un’utopia meno angusta, che proprio durante la composizione del De vulgari eloquentia (indicativamente fra il 1302 e i primi mesi del 1305) lo induce alla cosiddetta «svolta ghibellina», e cioè all’opzione filo-imperiale che troverà espressione matura nella Commedia. La vera patria di Dante, in fondo, è lì, tra i versi del poema che fonda una lingua, costituisce una nazione, dà forma a un intero universo.