Alain Elkann, La Stampa 24/11/2012, 24 novembre 2012
Gaia Servadio abita in una casa tipicamente inglese nel quartiere di Belgravia, a Londra, e ha uno studio appollaiato sulla terrazza dove scrive e dove ogni tanto la raggiunge una nipotina
Gaia Servadio abita in una casa tipicamente inglese nel quartiere di Belgravia, a Londra, e ha uno studio appollaiato sulla terrazza dove scrive e dove ogni tanto la raggiunge una nipotina. «C’è del marcio in Inghilterra» (Salani) è il titolo del suo ultimo libro. Lei è italiana o inglese, Gaia? «La maggior parte della mia vita l’ho trascorsa in Inghilterra dove ho fatto anche gli studi superiori, ma le radici sono italiane. Pur potendo scrivere nelle due lingue, sono più a mio agio in italiano. Forse perché l’Italia mi fa coprire di tremende forme di orticaria ogni volta che penso alla politica, alla corruzione e al modo in cui le cose vanno avanti». È vero che da giovane era molto attiva nel Partito comunista italiano? «Ho lasciato l’Italia a 15 anni perché volevo laurearmi in grafica e disegno industriale. Così sono approdata in una Londra che allora era una città povera, grigia, scura, con delle nebbie da tagliare con il coltello. C’erano ancora quelli che andavano in metropolitana alla City con la bombetta, l’ombrello e il “Times” in tasca, ma c’era anche un grande rispetto per le idee. Quando avevo appena compiuto 18 anni, mi mandarono a fare un documentario in Sicilia su Danilo Dolci. Davano fiducia. Ero incantata di questo e lo sono ancora oggi. In Inghilterra c’è ancora il rispetto per quello che tu vali». Perché ha fatto la giornalista? «Ho cominciato a scrivere per la “Gazzetta di Parma”, città dove avevo passato quattro anni della mia vita, poi pubblicarono un mio articolo sul “Mondo” di Pannunzio, che allora era un giornale di grandissima importanza e che piaceva molto a mio padre. Ciò mi diede una spinta verso il giornalismo. Lavorai anche a “La Stampa” con De Benedetti direttore: un giorno mi vide in minigonna, mi guardò in modo burbero e mi chiese: “Signora, dove l’ha dimenticata la sottana?”». E il Partito comunista? «Arriva con il documentario di Danilo Dolci nel 1958, la Sicilia era in mano alla mafia e l’arcivescovo diceva: “La mafia è un’invenzione degli stranieri e dei comunisti”. C’erano una povertà e un alfabetismo incredibili. Lì conobbi il gruppo del giornale “L’Ora”, diretto da Vittorio Nisticò, le due colonne del giornale erano Marcello Cimino e Giuliana Saladino, vi scrivevano anche Andrea Camilleri e Mauro De Mauro. Fu a Palermo che presi la tessera del Partito Comunista. A quell’epoca c’era una vera disciplina di partito, se ci si comportava male si veniva cacciati». Come bilanciava la sua vita inglese con il Partito? «Quando venne l’eurocomunismo cominciai a scrivere articoli a favore del Partito comunista sul “Times” o sull’“Evening Standard”. La mia casa di Londra, che è sempre la stessa, allora era quasi una succursale del Partito in Inghilterra». Chi ci veniva? «Da Macaluso a Pajetta, da Miriam Mafai a Giorgio Napolitano». Lei è comunista, ma dialoga con l’aristocrazia inglese... «Alcuni aristocratici sono noiosissimi. Ma è anche vero che nell’aristocrazia inglese c’è molta cultura, come c’era un tempo nella politica». Checosaèil«marcio»inglesedicuiparla nel suo libro? «Gli anni di Tony Blair e di Gordon Brown. Nonostante quello che ne ha scritto il pessimo giornalismo italiano, Blair era un Berlusconi che si presentava meglio e che non si tingeva i capelli». Ma non era di sinistra, Blair? «Hanno sporcato il nome del Partito laburista. Blair era più a destra della Thatcher. Oggi il partito conservatore sta facendo una politica più di sinistra». Quando ha abbandonato la sinistra ? «Quando mi sono accorta che il suo vero distruttore in un certo senso è stato Berlinguer, troppo vicino e favorevole all’alleanza con i cattolici». E Mario Monti? «Poveraccio, ha un governo distribuito tra quote... Lui però è una brava persona, amatissima in Inghilterra dove ha parlato in modo eccellente alla London School of Economics. Del resto quando in Inghilterra vengono lui o Napolitano la gente dice: “Che gente meravigliosa”». E in Inghilterra come si vive? «In questi ultimi anni si è molto burocratizzata, ma c’è il rispetto dell’individuo ed esiste ancora il fatto di scrivere lettere ai giornali per lamentarsi». Lei è amica del principe Carlo? «Lo conosco, mi piace perché si dà molto da fare per aiutare la gente ed è molto “verde”. Sarà un buon re». C’è razzismo in Inghilterra? «Il razzismo c’è dappertutto, la natura umana vuole sempre escludere oppure colpevolizzare». Che progetti ha adesso? «Ho scritto il libretto di una cantata su Giuseppina Strepponi, la moglie di Verdi, e una commedia molto buffa tratta da Dostoevskij che si chiama “Il coccodrillo”». E poi? «Sto terminando la mia autobiografia per Feltrinelli, sulla quale sto lavorando da anni». Ma perché, malgrado tutto, rimane in Inghilterra? «Perché qui ho tre figli, un marito e molti amici. Ma vado spesso e in India e a Parigi, che mi piace molto perché lì c’è amore e rispetto per la cultura».