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 2012  novembre 24 Sabato calendario

GIOVANNI BALDESSARRE

MILANO
— Pensavano di avere fatto l’affare della vita, ma quelli la loro vita se la sono presa tutta. Con la ’ndrangheta non si fanno business. Lo hanno capito a loro spese gli imprenditori della Blue Call, travolti dalle inchieste della Dda di Milano e Reggio Calabria che hanno portato all’arresto di trentuno persone, boss, affiliati e prestanome dei Bellocco di Rosarno. Una delle più potenti cosche della Piana di Gioia Tauro.
Nelle carte dei Gip Giuseppe Gennari e Tommasina Cotroneo è ricostruito il «modello classico di come i clan s’infiltrano nelle aziende sane», per poi saccheggiarle a proprio uso e consumo. Secondo la ricostruzione dei procuratori aggiunti Ilda Boccassini e Michele Prestipino, che hanno coordinato le inchieste dei pm calabresi e lombardi, la vicenda nasce da un credito da 250 mila euro che il commercialista Emilio Fratto non riusciva ad esigere. Il professionista decide allora di metterci in mezzo “alcuni amici”. Sono uomini delle ’ndrine a cui nessuno può dire di no. Cosi incassa il proprio denaro in cambio di una parte da restituire ai boss per pagarne i servigi. Allo stesso tempo Fratto vanta un credito dall’imprenditore Andrea Ruffino, che salda cedendo alcune quote della Blue Call, grande azienda italiana che gestisce una serie di call center in diverse regioni e con un portafoglio clienti da Sky a Vodafone. Chiuso l’accordo, Ruffino e Fratto, arrestati ieri insieme al terzo socio, Tommaso Veltri, si trovano in società i prestanome dei Bellocco. Inizialmente pensano di aver fatto un buon affare, che i
calabresi li avrebbero protetti da eventuali fastidi da parte della criminalità organizzata. Invece, in breve i boss si prendono l’azienda, riducendo gli imprenditori a loro prestanome. E l’azienda, con sedi in tutta Italia, che contava fino a due anni fa quasi mille dipendenti e un volume d’affari di oltre 13 milioni di euro, è svuotata. «Una vicenda paradigmatica », per gli inquirenti, che è parte di una storia e di altre inchieste molto più ampie.
Le Procure di Milano, Reggio Calabria, Palmi e Lugano, incrociando le indagini, hanno ricostruito la filiera criminale. Contestando reati che vanno dall’associazione mafiosa all’intestazione fittizia di beni. Con in mezzo l’intera gamma degli affari criminali tipici della ’ndrangheta: estorsioni, rapine, riciclaggio, droga, armi. Quasi duemila pagine
e tre ordinanze che fotografano la cosca sui diversi livelli. La catena di comando innanzitutto, con ai vertici Michele Bellocco. Poi, i nipoti e altri parenti. Quindi gli affiliati di fiducia. Infine le teste di legno a cui venivano intestati i patrimoni.
L’inchiesta nasce da due altre indagini della Dda reggina in cui si cercano i latitanti della famiglia Bellocco sfuggiti alle prime ondate di arresti. Per braccare i nipoti dello storico boss Umberto, gli investigatori iniziano a intercettare gli uomini ritenuti vicini
alla cosca. Ed è grazie a quei materiali che si apre un mondo sugli affari del reggente del clan Michele, fratello di Umberto e
deus ex machinadell’organizzazione.
Spuntano nomi, soldi, spedizioni punitive e summit. Appena l’inchiesta incrocia Milano,
la sinergia tra le due procure fa il resto. E gli indizi, prima vaghi, si trasformano nell’oro colato che ieri ha fatto chiudere il cerchio sui signori della Piana di Gioia Tauro e sul braccio economico in Lombardia.

***

DAVIDE CARLUCCI
MILANO
— A cosa si siano ridotte, nel Nord infettato dalla ’ndrangheta, le relazioni aziendali, lo rivela un’intercettazione. Andrea Ruffino, titolare della Blue Call, società di call center che nei suoi tempi d’oro è arrivata a contare fino a mille dipendenti, racconta come le sue quote nella società siano state cedute a un’altra del clan Bellocco: «Ho preso le botte, ho preso le botte come ti dicevo, guarda — si lamenta l’imprenditore arrestato ieri dal Gico della Guardia di Finanza — No, ci siamo messi d’accordo. Ma mi ha dato una botta che sento malissimo, adesso. Quel bastardo, guarda, con il coltello, ti giuro... Non sto sentendo da un orecchio... Mi liquidano le quote e basta. Io non vado più lì... Carlo, minchia, è impazzito. Mi ha tirato fuori il coltello».
Ruffino non è l’unico imprenditore che cerca nei clan una scialuppa nei mari burrascosi della crisi. Per questo l’ordinanza del gip Giuseppe Gennari è istruttiva. Mostra la fine a cui si va incontro.
«BOSS PADRONE»
Il 21 aprile 2011, Ruffino si sfoga: «Devo stare anche attento quando arrivo stasera che non mi facciano l’agguato. Il padrone della Blue call è la delinquenza». E il socio, Tommaso Veltri, il giorno dopo commenta: «In tre mesi si sono ciulati quattrocentomila euro». Cinque mesi dopo, il 24 settembre, Ruffino rivela: «Ti dico la verità, ho venduto l’altro call center perché proprio la ‘ndrangheta mi ha minacciato». Un’escalation, quindi l’inferno: «Le minacce che mi hanno fatto sono oltre ogni livello. Se vengono dentro quelli abbiamo finito. Ci prendono, ci puntano la pistola, fanno il giro dei soldi e non ci mollano più. E devo dargli ventimila euro domani mattina. Mi costano cinquecentomila euro al mese, mi ricattano tutto il tempo».
COME DICEVA CUCCIA
A “scalare” la Blue Call è Carlo Antonio Longo, il volto “manageriale” dei Bellocco. In un’intercettazione reinterpreta una frase cara al mitico banchiere Enrico Cuccia, arbitro, in vita, di ben altre scalate: «Non contano i soci, le azioni — spiega Longo a Ruffino — Alcune volte le azioni non è che si contano, si pesano. Le mie sono di peso».
LA FEROCIA
Gli uomini del clan Belocco sanno che la loro marcia in più, nell’economia lombarda, è la cattiveria. Uno di loro, non identificato, in una conversazione è esplicito: «Ne ammazzo uno al giorno! Uno al giorno, dovete saperlo ». Quando chiedono il pizzo sono impietosi. Anche perché qui non è abitudine pagare. Ecco come il latitante Francesco Nocera si rivolge a un commerciante: «Chiamate chi volete... io vi brucio tutto». Poi fa tirocinio a un giovane rampollo dei Bellocco che lo segue: «Mo’ lo dobbiamo lasciare là, un’altra mesata. Tutto a fuoco. Ma qua sono così. Si spaventano. E subito devono chiamare i carabinieri...».
EDUCAZIONE MAFIOSA
E invece per loro l’omertà va inculcata anche ai bambini. Mentre si trova in Lombardia, Giovanni Nocera, cugino di Francesco,
parla al telefono con la figlia che le chiede se si trova con un certo Umberto. Lui va in bestia perché per telefono non si fanno nomi, e invita la moglie a dare una lezione alla piccola. «Che, sempre
minchiate dice! Ma non glieli dai du’ schiaffi a questa?!». Un altro passaggio lo cita in conferenza stampa il pm Paolo Storari, per sottolineare quanto possa essere devastante un’educazione del
genere. Una ragazzina minorenne va a trovare la madre, donna del clan, in carcere a Vigevano. Racconta che alla sorellina è stato assegnato un compito in classe. «Le danno un tema: parla contro
la mafia... Guarda che tema che le danno. Gliel’ho scritto, io sono la persona meno adatta a parlare contro la mafia, perché sono una persona che hanno arrestato tutti i miei genitori per reati mafiosi… Per me la mafia è
lo Stato, gliel’ho scritto... ».
«IO RICICLO»
Così sfrontati che ogni frase è l’ammissione di un reato. «Io i soldi mica li tengo a casa, io li riciclo, li reinvesto»: Domenico Bellocco non ne fa un mistero. E Michele, il capo, si lamenta della normativa antimafia, un freno alla loro attività: «Stavano facendo una legge — dice — o ci confiscate i beni, o ci date la galera! Decidete una cosa, ce la prendiamo!».