Vittorio Emanuele Parsi, La Stampa 24/11/2012, 24 novembre 2012
Ha impiegato 48 ore il presidente egiziano Morsi per mettere all’incasso sul piano domestico il successo conseguito grazie al ruolo cruciale giocato nel rendere possibile la proclamazione della tregua tra Israele e Hamas
Ha impiegato 48 ore il presidente egiziano Morsi per mettere all’incasso sul piano domestico il successo conseguito grazie al ruolo cruciale giocato nel rendere possibile la proclamazione della tregua tra Israele e Hamas. Forte della riconoscenza americana e, soprattutto, della convinzione di Washington che «il nuovo faraone» -- come già lo hanno ribattezzato i suoi oppositori - sia l’uomo indispensabile affinché le rivoluzioni che stanno interessando il mondo arabo non travolgano definitivamente i sempre più incerti equilibri regionali, Morsi ha provveduto a sigillare il proprio potere rispetto a qualunque possibile infiltrazione proveniente dai superstiti del vecchio regime. La magistratura, insieme ai militari, continuava infatti a rappresentare un baluardo all’azione islamizzante del nuovo regime e, contemporaneamente, costituiva un formidabile centro di potere alternativo a quello del presidente. Nei mesi scorsi, il braccio di ferro tra il presidente Morsi e il procuratore generale Abdel Meguid Mahmoud per le assoluzioni comminate ai principali collaboratori di Mubarak impegnati nella repressione durante la cosiddetta «battaglia dei cammelli» di piazza Tahir aveva già chiarito che la rivalità tra i due uomini nascondeva un conflitto molto più strutturale tra gli esponenti del nuovo ceto politico (forte della legittimazione elettorale) e l’intera magistratura (nominata dal vecchio regime) che non poteva che sfociare in una escalation. E così è puntualmente successo. Dopo quella del feldmaresciallo Tantawi ora è la testa del procuratore generale Mahmoud a rotolare metaforicamente nel cesto. La rivoluzione va avanti, dunque: questo è il primo segnale che il presidente invia innanzitutto ai suoi sostenitori, forse perplessi per il sostegno a loro avviso tiepido offerto da Morsi ai cugini di Hamas. Dal punto di vista istituzionale, più che realizzare una svolta autoritaria - possibile, probabile ma non ancora certa - le decisioni di Morsi proseguono nell’opera di riequilibrare i pesi tra funzionari nominati e cariche elettive a tutto vantaggio di queste ultime. In tal senso Morsi sta provvedendo a liberare presidenza e assemblea costituente dall’ingombrante tutela che esercito e magistratura intendevano esercitare sull’Egitto dei Fratelli Musulmani. È pero evidente il fatto che il poverissimo pedigree liberale che il partito di Morsi può esibire desta più di una preoccupazione presso i suoi oppositori, a cominciare dai Copti e dalle sempre più esigue e assediate componenti «laiche» della società civile egiziana, che non a caso stanno manifestando in queste ore. Considerando l’influenza che l’Egitto e la sua rivoluzione hanno sull’intero mondo arabo anche i timori internazionali su una possibile deriva sempre più illiberale dell’Egitto sono giustificati. D’altra parte è attraverso la rivoluzione dello scorso anno che l’Egitto è tornato a costituire un punto di riferimento per le masse arabe come non accadeva dai tempi di Nasser. Certo, il generale seppe trasformare un colpo di Stato in una rivoluzione, mentre Morsi sembra essere alle prese con la trasformazione di una rivoluzione in un colpo di Stato: ma è l’esito finale quello che potrebbe accomunare due presidenti così diversi, ovvero la costruzione di un «populismo autoritario inclusivo» in sostituzione dei sistemi autoritari che li avevano preceduti. Le prossime settimane, se non i prossimi giorni, sveleranno qualcosa di più circa le vere intenzioni di Morsi: si limiterà a proteggere il processo rivoluzionario da possibili tentativi di bloccarlo o imboccherà con sempre maggior convinzione la strada di un’involuzione autoritaria? È comunque presto per intonare il de profundis per la più importante di tutte le primavere arabe e per decretare l’avvento di un inverno gelido e grigio. Resta però viva l’amara sensazione che proprio l’errore strategico commesso da Netanyahu, senza la sua decisione di aprire a Gaza una crisi che ha dimostrato di non essere nelle condizioni di chiudere, abbia rappresentato un assist insperato per Morsi, in grado di consentire li di anticipare una mossa azzardata che forse avrebbe dovuto quantomeno rinviare.