Marco Alfieri, La Stampa 24/11/2012, 24 novembre 2012
Nella piazza della chiesa ci sono più striscioni indipendentisti che alberi. C’è quello di Esquerra republicana de catalunya, quello della CiU del governatore Artur Mas, quello di iniziativa-Verds e quello di Cup (independencia, socialismo e paisos catalans), sporcato dai ragazzini che giocano a pallone
Nella piazza della chiesa ci sono più striscioni indipendentisti che alberi. C’è quello di Esquerra republicana de catalunya, quello della CiU del governatore Artur Mas, quello di iniziativa-Verds e quello di Cup (independencia, socialismo e paisos catalans), sporcato dai ragazzini che giocano a pallone. Sulla palazzina di fronte, la clinica dentale «Barrachina», campeggiano invece tre bandiere giallo-rosse stellate, un cartello con gli orari delle messe (in catalano e in castigliano) e un manifesto con su scritto «Catalonia is not Spain…». Bisogna venire a Arenys de Munt, paesello di 8 mila anime 40 chilometri sopra Barcellona, per capire l’onda di piena che domenica sera potrebbe travolgere l’orgogliosa statualità spagnola, innescando processi indipendentisti in mezza Europa. «Saranno le elezioni locali più importanti della storia», gonfiano il petto in paese. Ad Arenys il 13 settembre di tre anni fa si tenne un referendum a domanda secca per separarsi da Madrid. Andò a votare il 41% degli aventi diritto, più delle precedenti elezioni europee, e i «sì» furono il 96%. Ovviamente era incostituzionale. Il Tribunale di giustizia catalano intimò di non tenerlo ma «gli organizzatori misero i banchetti proprio lì, in quel locale parrocchiale», indica Pedro, un artigiano in pausa pranzo. Sembrava una goliardata, fu una giornata di festa popolare che ruppe un tabù. «La sollevazione di queste settimane è nata 3 anni fa, dal nostro gesto simbolico…», racconta un dirigente locale di Cup, che ad Arenys esprime il sindaco. Sulla rambla San Marti, la via alberata dei negozi, praticamente ogni vetrina espone bandierine stellate, cappellini e shopping bag catalane. Ci sono cartelli e striscioni dappertutto: sulle strade, sui rami, le finestre, i ponticelli, le viuzze. A quel proto referendum del 2009 ne seguirono un’ottantina in tutta la Catalogna. Sempre informali ma sempre partecipati (media del 22% con i sì oltre il 90%). L’anno dopo, quando la Corte costituzionale boccia il nuovo statuto che sancisce la preminenza della lingua catalana e l’auto proclamazione in «nazione», scatterà già la prima grande manifestazione per le strade di Barcellona. Oltre un milione in piazza con testimonial di eccezione l’allora presidente blaugrana Joan Laporta, che ai suoi tifosi regala una chicca: «Se abitassi ad Arenys, avrei votato sì al referendum…». Poi, certo, la crisi economica complica tutto. Te ne accorgi due chilometri sotto al comune di Arenys de Mar, noto per la flotta peschereccia, un po’ di turismo estivo, piccolo commercio e una spiaggia di nudisti. Davanti al mercato coperto stanno raccogliendo le firme anti ipoteca. Una piaga esplosa con lo sboom immobiliare. «Le banche ci cacciano di casa», urla una signora pensionata. «Servirebbe un sostegno dalla regione che non ha più soldi perché Madrid se li tiene. Ma sono i nostri soldi…». Con la recessione e i tagli al welfare il drenaggio fiscale è diventato insostenibile per un bel pezzo di ceto medio. Anche qui c’è un precedente. Lo scorso marzo il comune di Girona promosse una protesta fiscale per ridurre il deficit: liquidare Irpef e Iva all’Agenzia tributaria catalana invece che a quella statale. Lo stesso fecero i borghi di Manileu, Berga, Arenys du Munt, Manresa, Caldas, San Pedro de Toreli, San Vicente. Scoppiò un tale polverone che la Generalitat dovette stoppare la protesta. Che però continua a covare. «Dite pure in Italia che il popolo di Catalogna si sta rivoltando contro la dittatura di Madrid», sibila davanti al vicino Centro professionale europeo, dove si organizzano corsi di informatica e autocad, un tranquillo padre di famiglia di professione consulente d’azienda. Incredibile. La Costa Brava è tutta così. Mare calmo e un po’ argentato sulla litoranea e poi, dietro la ferrovia, casette a schiera e palazzine piene di bandiere catalane. Ogni pensiero è un pensiero fisso - «è arrivato il nostro momento» -, e l’agenda elettorale è fatta di due sole parole ossessive: referendum e/o indipendenza. Domenica si vota per qualificarsi all’appuntamento col destino. Destra, sinistra o centro non contano granché. Il resto è cronaca. Con l’estate arriva pesante l’austerity europea, i tagli dolorosi del governo di Mariano Rajoy, la Catalogna che va in semi default, costretta a pietire i soldi dagli odiati castigliani, fino alla manifestazione oceanica di Barcellona, l’11 settembre, giorno della festa nazionale catalana, e quindi la scelta del voto anticipato. Per anni l’autonomista moderato Jordi Pujol era riuscito a negoziare con Madrid la devoluzione di materie importanti (pubblica sicurezza e istruzione), e tutto sembrava sopito. Dopo il 2003, con il governo tripartito di sinistra, debole e frazionato, il giochino si rompe e la Catalogna perde peso «ma il sentimento indipendentista c’è sempre stato», chiosa Manuel, insegnante di scuola media ad Arenys. Il mito del Québec mediterraneo dove i bimbi a scuola imparano che il fiume Ebro nasce all’estero. Il sogno della nazione catalana. «Domenica lo dimostreremo...».