Domenico Quirico, La Stampa 24/11/2012, 24 novembre 2012
A considerare come gli uomini si uccidono si impara molto di più che a considerare come si amano. Nel Kivu, dove la guerra non è mai spenta ma soltanto sopita, e gli anni si contano non con le piene dei fiumi o il raccolto del mais ma con la tetra noia dei massacri, delle carestie e degli esodi, i guerrieri, nelle foto ricordo, mostrano l’assurdo sussiego dei massacratori e kalashnikov nuovi di zecca
A considerare come gli uomini si uccidono si impara molto di più che a considerare come si amano. Nel Kivu, dove la guerra non è mai spenta ma soltanto sopita, e gli anni si contano non con le piene dei fiumi o il raccolto del mais ma con la tetra noia dei massacri, delle carestie e degli esodi, i guerrieri, nelle foto ricordo, mostrano l’assurdo sussiego dei massacratori e kalashnikov nuovi di zecca. Il machete lo tengono nascosto. Nel 2008, sulle stesse piste fradice corse dai governativi in rotta che portano a Goma, capitale della regione, ho visto file di quei mitra infangati gettati via; armi anonime e nude, tutte eguali come cenci. Nessuno le raccoglieva. Ma il machete, ah quello!, nessuno l’aveva gettato via o dimenticato: perché è l’arma con cui si uccide, che si tiene sempre ben stretta, per la futura immancabile vendetta. Qui il nemico, l’Altro, non basta fulminarlo da lontano, lo vogliono guardare negli occhi, spiarne il terrore. Quante volte abbiamo visto questa gente in fuga, abbiamo sentito pesare nei loro sguardi l’opaca tristezza che è come il presentimento della fine. Seicentocinquantamila dicono, questa volta; e la guerra è appena iniziata. Immaginateli lungo strade che mostrano senza pudore il volto dell’Africa degradata depressa devastata e sordida. Su piste, erose dalle buche, legioni di miserabili si adunano, la sera, vicino ai fuochi che ardono tra masserizie abbandonate; vanno da un posto a un altro senza che si capisca bene dove, spariscono ingoiate dalla foresta. Sotto il cielo torbido e la luce smorta la povertà mostra il suo volto: terre incolte, case bruciate, magazzini saccheggiati, bimbi vestiti di straccio, donne dallo sguardo privo di orizzonte. Ogni volta la nostra indignazione (ah la catastrofe umanitaria le donne violentate eccetera…) si spegne rapida, come un orgasmo. Non badate alle sigle delle parti in lotta, non fatevi ingannare: «Unione dei partiti congolesi per la pace», «Partito nazionale mai mai», «Repubblica democratica del Congo». Parole che non portano a niente, bugie, non vi dicono nulla di questi magazzini della crudeltà umana, delle sue smanie, della sua tetra disperazione. Non ci sono ideologie, programmi che spieghino perché la Storia ogni giorno qui si impigli all’improvviso nei nastri delle mitragliatrici. Si lotta per il saccheggio, si spartiscono le ruberie, si agguanta un bottino. Oggi come ieri, e ahimè domani, è la guerra del coltan, il minerale che vale più dei diamanti. In questo angolo dell’Africa, la terra dei Grandi Laghi, gli uomini non contano niente; li si uccide a mazzi, a tribù, periodicamente, con l’indifferenza con cui si falciano le erbe cattive. Al massimo si conservano i bambini, per farne schiavi–soldati, o per metterli al lavoro, spaccare il minerale nascosto nella roccia. E se sono femmine per usarle come prostitute. Anime timorose e fragili, figli innocenti della guerra, della paura, dell’esilio e della fame. La maledizione sembra accanirsi su una terra scura e ricca: malattie uccidono la manioca, un parassita decima gli alberi di banano; solo i gruppi armati prosperano e si moltiplicano. La vita non vale nulla nel Kivu, il coltan, la colombo-tantalite, quella, vale, e molto. Lo estraggano a migliaia di tonnellate, perfino nel parco nazionale di Kahuzi–Biega e nella riserva di Okapi: a mani nude, come nell’Ottocento. Per trasportarlo in passato hanno usato perfino i voli di linea. Il fato lo ha fatto rarissimo, questo minerale della «new economy», che serve per produrre componenti di attrezzature aeronautiche ed elettroniche: ma lo ha nascosto in gran quantità nelle foreste del Kivu. La maledizione di un popolo, il veleno prezioso che lo uccide. Il coltan scatena le guerre, scombina la geopolitica: i tutsi del Ruanda, che pure non ha minerali nel proprio territorio, ne esportano quantità sempre più grandi. Li succhiano al Congo, gigante fortunato ma debolissimo. Il progetto di questi implacabili prussiani d’Africa, si dice, è fondare un impero. Il Ruanda è minuscolo, povero e sovrappopolato. Ma c’è il Kivu, dove vivono genti tutsi, immenso e corrotto, e una miniera a cielo aperto. Basta scavalcare la frontiera. Bisogna balcanizzarlo, ridurlo in briciole incontrollabili, alimentare il caos che rende possibile ogni maneggio. La capitale, Kinshasa, è lontana, il presidente Kabila Junior, spietato e astuto, guida una cleptocrazia: come ai tempi di Mobutu, il Grande Tiranno, quello che aveva proposto di aggiungere un nuovo articolo alla costituzione: arrangiatevi come potete! I soldati che dovrebbero difendere il Kivu sono pagati (quando la paga non resta nelle tasche degli ufficiali) 50 dollari; un deputato ne prende 4.500. E i generali sono a capo di imprese commerciali, esigono taglie e balzelli, guidano imprese criminali con cui svendono le ricchezze minerarie. Il Kivu lo controllano i signori della guerra, uomini di paglia manovrati da gente più potente di loro, con il sorriso complice di Washington, grande alleato dell’Uganda. A loro bisogna rivolgersi per ottenere una concessione nella foresta, venti, trenta chilometri quadrati dove puoi scavare il coltan ed esportarlo verso il Ruanda o l’Uganda. Chi conosce Celeste Kambale Malonga, il capo della milizia dei «Mongoli»? La Mongolia non c’entra nulla, se non, forse, per la sanguinaria ferocia: è una parola che significa «ottenere qualcosa attraverso l’inganno». È una delle bande hutu, molti sono ex veterani del genocidio dei tutsi nel 1994, altri si sono armati per resistere ai pogrom che il potere centrale congolese, per le sue manipolazioni tribali, periodicamente scatenava contro questa minoranza. E poi ci sono i «mai mai» del colonnello Janvier Banyene, mitra e zagaglie e pratiche rituali che li dovrebbero rendere invulnerabili. Si battono contro tutti gli «invasori» della loro terra; li puoi ingaggiare per qualsiasi trama o guerra. E c’è il colonnello Sultan Makenga, criminale di guerra per l’Onu, con le sue milizie del «23 marzo». All’inizio era solo un ammutinamento di soldati tutsi sostenuti dal Ruanda, ora è diventata rivolta. Hanno preso Goma e la capitale del Sud Kivu, Bukavu, e giurano che, «se la gente lo chiederà», andranno fino a alla capitale, duemila chilometri da qui, risalendo il fiume Congo. Forse troppo per un esercito che è solo il braccio armato del Ruanda. Gli ordini, questo disertore dell’armata congolese, li riceverebbe direttamente dal comandante dell’esercito ruandese, Charles Kayonga: con le armi le informazioni e il soccorso di truppe speciali travestite da congolesi. A Goma ci sono migliaia di caschi blu, una forza di pace impantanata da anniin una zona dove la guerra non finisce mai. Sono rimasti chiusi nel loro immenso campo accanto all’aeroporto guardando i soldati di Makenga, il ricercato dell’Onu!, dilagare nelle ampie strade. Nel loro mandato non c’è la clausola che consente loro di sparare, occorre una nuova risoluzione. La viltà Onu cui siamo abituati, che si traveste da scrupolo burocratico, da puntiglio legalistico: come sempre. La guerra del coltan è solo all’inizio.