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 2012  novembre 24 Sabato calendario

DALLA pubblicazione di Febbre a 90’, nel lontano 1992, il calcio inglese è molto cambiato, anche se in realtà sono successe più cose negli ultimi vent’anni che in tutti i precedenti settanta o ottanta

DALLA pubblicazione di Febbre a 90’, nel lontano 1992, il calcio inglese è molto cambiato, anche se in realtà sono successe più cose negli ultimi vent’anni che in tutti i precedenti settanta o ottanta. Le partite sono diventate più veloci e più belle, i giocatori sono più in forma e più bravi. I nostri stadi sono più sicuri, ma i biglietti maledettamente cari e più difficili da trovare, e così gli spettatori sono più vecchi, e meno scalmanati. Quasi tutti i giocatori della Premier League dell’ultimo decennio sono plurimilionari per definizione, mentre nei primi anni Novanta il calciatore inglese più dotato, Paul Gascoigne, giocava nel campionato italiano, decisamente più ricco e più glamour. Ma ormai sia la lira, sia la serie A, hanno smesso di luccicare. Abbonandoti a un canale sportivo via cavo puoi vedere due o tre partite al giorno, in ogni angolo d’Europa. È più facile guardare un match della Premier League a New York o alle Canarie che a Londra, e in ogni bar del mondo c’è sempre qualcuno con cui parlare della lampante cocciutaggine di Arsene Wenger nel calciomercato estivo. La mia squadra del cuore, un tempo così triste e quasi impossibile da amare, è diventata un simbolo di perfezione estetica, e ha vissuto, forse, il periodo più grandioso della sua storia; per quasi un decennio, gli irripetibili anni tra il 1997 e il 2006, un sabato sì e uno no potevo vedere all’opera nell’Arsenal il fior fiore del calcio mondiale. Dietro questi cambiamenti ci sono un evento, la strage di Hillsborough, e un uomo, Rupert Murdoch. Dopo Hillsborough, infatti, si è dovuto per forza ammettere che qualcosa andava fatto – che quelle enormi, fatiscenti gradinate di calcestruzzo non erano sicure e che uno svago pomeridiano non poteva includere il rischio di feriti, o addirittura di morti. Murdoch, invece, ha capito che accaparrandosi i diritti tv degli sport più seguiti del mondo le sue televisioni sarebbero diventate quasi più indispensabili del pane per una marea d’individui. Così ha inondato il calcio di soldi, e insieme ai bigliettoni sono spuntate le star straniere, e i club hanno aumentato i prezzi dei biglietti per pagare ingaggi stellari. Più di una volta mi è capitato di leggere un’altra versione su quegli anni, una versione secondo la quale parte delle responsabilità di quei cambiamenti spetterebbe al libro che avete in mano. Febbre a 90’, questa in breve la teoria, avrebbe venduto le partite di calcio alle classi medie rendendole le uniche in grado di permettersi di guardarle. Non sarebbe mica male, in fondo, poter rivendicare dei meriti in cambiamenti sociali e culturali tanto significativi, ma purtroppo non è così. Non è per essere modesto che dico che il proprietario di un impero mediatico internazionale ha influito sullo sport inglese più del mio primo libro. E comunque in tutta questa storia c’è qualcosa che non torna, è come se il fatto che Febbre a 90’ sia un libro significhi che il suo successo è dovuto soltanto ai lettori delle classi medie – della serie come potrebbe essere altrimenti, gli operai mica leggono. Secondo me, invece, Febbre a 90’ non è stato letto soltanto da gente abituata a comprare libri, ma anche da chi di solito non li compra; insomma, sia dai laureati di Oxford e Cambridge che da persone che hanno mollato la scuola a sedici anni. Dietro questo libro non ci sono storie drammatiche – l’ho scritto quasi di getto, e trovare un editore è stato relativamente facile e veloce. Molti editori, però, convinti che «i libri sul calcio non vendono», lo avevano snobbato, basandosi, a mio avviso, su una visione del mondo tutt’altro che democratica. Il succo del loro ragionamento, infatti, era: «I tifosi di calcio sono stupidi, talmente stupidi che non si comprano nemmeno le terribili autobiografie opera di ghost-writers sfornate apposta per loro. Quante chance credi di poter avere con i tuoi riferimenti al postmodernismo e le tue citazioni di Jane Austen?». L’idea che quelle terribili autobiografie opera di ghost-writers non vendessero perché erano terribili e opera di ghost-writers non li aveva nemmeno sfiorati. Quindi, probabilmente Febbre a 90’ non ha cambiato la composizione sociale degli spettatori delle partite di calcio, ma spero che almeno abbia aiutato a risvegliare gli editori sul potenziale commerciale di un diverso tipo di libri sullo sport. Evitando chissà quale ricercata affermazione da uomo di lettere sulla genesi di questo libro, posso solo dire che l’unica cosa che avevo in mente mentre lo scrivevo era che i tifosi di calcio potessero leggerlo senza fare una piega. Per quanto riguarda le mie fonti d’ispirazione, due vengono dagli Stati Uniti: l’autobiografia di Tobias Wolff This Boy’s Life e il classico dimenticato di Frederick Exley A Fan’s Notes. Dal libro This Boy’s Life, di Tobias Wolff (Atlantic Monthly Press, New York, 1989) nel 1993 è stato tratto il film Voglia di ricominciare, con Robert De Niro e Leonardo di Caprio. Da A Fan’s Notes, di Frederick Exley, è stato tratto il sottotitolo dell’edizione originale di Febbre a 90’, Fever Pitch, A Fan’s Life, «Vita di un tifoso ». ( N.d.T.) Sarà perché la cultura popolare è il fiore all’occhiello dell’America, ma nessuno lì è sembrato sorprendersi del fatto che un autore esperto di poesia contemporanea fosse altrettanto ferrato nei punteggi del baseball; in Gran Bretagna, invece, questo miscuglio culturale è ancora visto con un certo sospetto. Un tifoso di calcio che legge libri passa per presuntuoso e snob; un poeta con un abbonamento stagionale è uno che più in basso di così non poteva cadere. Un altro dato di fatto è che la sfera d’influenza del calcio si era già ampliata ben prima di Febbre a 90’. Molte delle persone che vedevo alle partite appartenevano, come me, alla prima generazione delle classi medie, tutti beneficiari della mobilità sociale del secondo Dopoguerra. Noi avevamo goduto del privilegio di poter andare all’università e amavamo il calcio soprattutto perché lo amavano i nostri genitori e i nostri nonni. E comunque quando l’Inghilterra vinse la Coppa del Mondo, nel 1966, e George Best diventò il Quinto Beatle, quasi tutte le vecchie connotazioni sociali saltarono e amare il calcio diventò semplice quanto amare la musica pop. Poi, negli anni Ottanta, gli anni del calcio malato, molti di quei ragazzini hanno smesso di andare allo stadio, per tornarci a metà del decennio successivo, quando le cose hanno ricominciato a girare per il verso giusto. (Io invece, anche se avrei dovuto, non ho mai smesso, ed è stata questa tenacia, forse, la mia migliore qualifica per scrivere questo libro.) Quando i tifosi l’hanno piantata con il cercare di picchiarsi fino a morire spappolati – o perlomeno quando la polizia ha capito come impedirglielo – gli spalti sono tornati pieni. E in questo dal punto di vista sociologico non c’è nulla di particolarmente complicato. Febbre a 90’, però, è uscito proprio nel periodo in cui i nostri stadi stavano diventando più sicuri, più affollati e più accoglienti per donne e famiglie, e la conseguenza è stata che il mio libro si è beccato meriti e colpe che non gli spettavano. Tempo dopo ho scoperto che in altri paesi – soprattutto negli Stati Uniti, il posto in cui Febbre a 90’, per ovvie ragioni, ha avuto meno successo –, stavano succedendo più o meno le stesse cose e tenendo banco dibattiti simili. Ovunque, o almeno così pare, lo sport professionistico si sta arricchendo e imborghesendo. Trovatemi un solo dirigente che per intrattenere un cliente lo porta ancora a teatro o all’opera; le classi medie di oggi, di qualunque nazionalità si parli, sono persone diverse, con background diversi e gusti diversi. Negli ultimi vent’anni non è solo il calcio a essere cambiato. Anch’io, ovvero l’altro protagonista di Febbre a 90’, che in fondo è un libro autobiografico, sono diverso. Nonostante tutto, però, il mio legame con l’Arsenal non si è spezzato. Negli ultimi vent’anni avrò perso al massimo venti partite casalinghe e quando giochiamo male ancora metto il muso. Anzi, ora che vivo con persone afflitte dalla medesima malattia la mia tristezza è ancora più impenetrabile. Il calcio, però, è diverso, gli stadi sono diversi e le voragini della mia infanzia e prima adolescenza sono state riempite – da un più che soddisfacente lavoro a tempo pieno che Febbre a 90’ ha reso sicuro e da una ricca, impegnativa e complicata vita di famiglia. Oggi non vorrei e non potrei mai scrivere questo libro, ma non lo dico per sminuirlo. Nella mia attuale incapacità, infatti, vedo tanto una perdita quanto una crescita. La persona che aveva il tempo e le energie per tutti quei crepacuori ormai non esiste più, e se ora dovessi scrivere su di lei probabilmente le darei un buffetto sulla testa e la spronerei a diventare più adulta, più saggia, e si perderebbe tutto il bello di Febbre a 90’. Ho davvero provato quelle cose, e con me tantissime altre persone, milioni di persone. Molti di quei milioni forse oggi non si riconoscono più granché nel calcio e negli stadi in cui viene giocato, ma i miei figli e milioni di altri giovani, ragazzi e ragazze, stanno iniziando un’avventura che gli procurerà una marea di dolori e, una volta ogni morte di papa, attimi di gioia trascendentale. E questo, secondo me, non cambierà mai. (Traduzione di Lucia Ferrantini) © 1992 ©1997 Ugo Guanda Editore Nuova edizione novembre 2012