Pietro Citati, Corriere della Sera 24/11/2012, 24 novembre 2012
Non ho mai letto la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, che John Maynard Keynes pubblicò nel 1936
Non ho mai letto la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, che John Maynard Keynes pubblicò nel 1936. E me ne vergogno. Ma mi permetto di consigliare a qualsiasi lettore Le conseguenze economiche della pace (Adelphi), che ebbe un grande successo subito dopo la Conferenza di pace di Parigi nel 1919. Ora Adelphi pubblica un piccolo libro, Le mie prime convinzioni (a cura di David Garnett, Pierangelo Dacrema e Brunella Bruno, con un saggio di Giorgio La Malfa, pp. 148 12), che sviluppa la materia delle Conseguenze economiche della pace. Il 2 febbraio 1921 Keynes ne lesse una parte ai suoi amici di Bloomsbury. «Caro Maynard», gli scrisse Virginia Woolf, «ci faresti avere il tuo manoscritto in modo che possiamo leggere quello che ci siamo persi ieri sera? Lo terremo segreto, e te lo restituiremo subito. Ci è parso magnifico, e non so dirti quanto ti invidio per il modo come descrivi i personaggi». Keynes aveva passato i primi mesi del 1919 a Parigi come rappresentante del ministero del Tesoro inglese alla Conferenza di pace. Tutti gli alberghi di Parigi erano occupati da rappresentanti dei vari paesi, dalla Gran Bretagna alla Germania agli Stati Uniti all’Australia al Giappone. Come un vero figlio di Ermes, Keynes si muoveva tra la protervia, la stolidità e l’inutile sottigliezza dei politici di tutto il mondo, e li guardava con un occhio spaventosamente ironico. «Un senso di incombente catastrofe — scriveva — sovrastava la frivola scena; la futilità e piccolezza dell’uomo davanti ai grandi eventi che lo fronteggiavano; il misto di impotenza e irrealtà delle decisioni; leggerezza, cecità, arroganza, grida confuse da fuori: tutti gli elementi della tragedia antica erano presenti». Ma, stando seduto tra i teatrali ornamenti nei saloni di gala francesi, Keynes si chiedeva se i volti di Wilson e Clemenceau fossero delle vere facce umane, e non «le maschere tragicomiche di qualche strano dramma o spettacolo di burattini». A Parigi, gli Alleati stavano preparando per la Germania una pace cartaginese: la prosecuzione dell’embargo, l’occupazione del territorio tedesco, la proibizione di commercializzare, al di fuori dei propri confini, oro, titoli esteri o altre disponibilità liquide, la requisizione della flotta mercantile. Dapprima alla conferenza e poi nelle Conseguenze economiche della pace, Keynes con la sua calma voce ironica dimostrava cosa sarebbe successo: dapprima la disperazione e la fame in Germania, poi la diffusione d’odio verso i vincitori, infine la futura vendetta dei vinti, che dopo due decenni avrebbe portato all’autodistruzione dell’Europa. Ciò che affascina e meraviglia nelle Conseguenze economiche della pace è il dono narrativo e il talento psicologico, che ne fanno un capolavoro letterario, da mettere accanto ai libri di Virginia Woolf e di Lytton Strachey. Ecco le mirabili pagine su Clemenceau. «Nel Consiglio dei Quattro — Clemenceau portava una giubba a tagliere di buon panno nero, e alle mani, che non erano mai scoperte, guanti grigi di pelle scamosciata; le scarpe erano di grosso cuoio nero, ottime, ma di foggia campagnola, e a volte fermate sul davanti, curiosamente, da una fibbia invece dei lacci. Nella sala della casa del presidente Wilson in cui si tenevano le riunioni regolari del Consiglio dei Quattro, Clemenceau sedeva su una seggiola quadrata, rivestita di broccato, nel mezzo del semicerchio davanti al caminetto, con alla sua sinistra il primo ministro italiano Orlando e, accanto al caminetto, il presidente Wilson, e alla sua destra, dirimpetto a Wilson, il premier britannico Lloyd George». «Non aveva con sé carte né portafogli e non era assistito da un segretario personale, ma vari ministri e funzionari francesi confacenti all’argomento in esame erano presenti intorno a lui. Il suo passo, la mano e la voce non mancavano di vigore; nondimeno, specialmente dopo l’attentato di cui era stato oggetto, aveva l’aspetto di un uomo molto vecchio, che riservava le sue forze per le occasioni importanti. Parlava di rado, lasciando l’esposizione iniziale del punto di vista francese ai suoi ministri o funzionari; spesso chiudeva gli occhi e se ne stava rilasciato sulla sedia con un viso impassibile di cartapecora, le mani guantate di grigio intrecciate in grembo. Una breve frase, recisa o cinica, era in genere sufficiente, una domanda, una sconfessione netta dei suoi ministri senza salvarne la faccia, o un’impuntatura caparbia rafforzata da qualche parola in un inglese dalla pronuncia asprigna. Ma eloquenza e fervore non mancavano quando ce n’era bisogno, e l’improvvisa eruzione verbale, spesso seguita da un accesso di tosse cavernosa, produceva il suo effetto piuttosto col vigore e la sorpresa che con la persuasione». * * * La figura di Keynes mi incanta, e rinuncerei volentieri al posto importantissimo che egli ha segnato nella scienza economica, per raccogliere le tracce lasciate in quella meravigliosa raccolta di chiacchiere, pettegolezzi e opinioni che sono le Lettere di Virginia Woolf. Keynes vi appare dappertutto, sempre sottile, intelligente e frivolo. Frequentava Virginia: per qualche tempo abitò un pied-à-terre al piano sotto il suo: andava a trovarla nella sua casa di campagna; e quando prese in affitto una casa a Gordon Square ne fece il centro di una nuova Bloomsbury, dando feste e balli in maschera. Nelle lettere di Virginia Woolf appare continuamente Lydia Lopokova, che aveva danzato come prima ballerina della compagnia Diaghilev nel 1916, 1919 e 1925, nelle rappresentazioni della «Boutique Fantasque», di «Les Sylphides» e della «Bella addormentata». Ritornò a ballare nel 1926 in un adattamento da Milton, e immaginava di mimare anche delle scene di Orlando. Almeno nei primi anni di conoscenza, sembrava deliziosa a Virginia Woolf: veniva a trovarla di tanto in tanto, come un uccellino che saltava allegramente da un ramo all’altro; graziosa, esuberante, spiritosa, simpaticissima. Aveva l’aria di uno scoiattolo: stava seduta per ore e ore a lustrarsi il naso con le zampe anteriori. Malgrado una relazione con Duncan Grant, Keynes spalancava i suoi occhi limpidi sul mondo femminile, e quando vide Lydia Lopokova danzare nella compagnia Diaghilev, si innamorò di lei. Voleva sposarla, dovette affrontare ostacoli: ci riuscì soltanto il 4 agosto 1925, e venti giorni dopo diede un grande ricevimento. Malgrado la simpatia per Lydia, Virginia era stata contraria al matrimonio. «Penso veramente — aveva scritto alla sorella — che dovresti fermare Maynard prima che sia troppo tardi. Non riesco a credere che si renda conto delle possibili conseguenze. Mi vedo fin troppo bene Lydia diventare grassa, affascinante, esigente; Maynard entrare nel governo; e casa sua diventare luogo di duchi e di primi ministri. Maynard, che è un uomo semplice, sprofonderebbe irrimediabilmente prima di rendersi conto della sua condizione. Poi si sveglierebbe, per ritrovarsi con tre bambini, e controllato a vita». Lydia era molto meglio come bohèmienne senza legami, affamata e piena di speranze, che come matrona, con tutti i suoi diritti assicurati. A Londra e nella sua casa di campagna, Virginia Woolf continuò a controllare, con ironia non sempre benevola, il matrimonio dell’uccello-scoiattolo con il grande economista scrittore. Lydia aveva un carattere gradevole e un cervello limitato. Il suo contributo era uno strillo, un ballo: poi il silenzio, come una bambina remissiva, con le mani intrecciate. «Dicono — scriveva Virginia — che ora si può conversare con Keynes solo usando parole di una sillaba. Se no, Lydia non capisce». Tutto quello che aveva preveduto intorno a Keynes e a Lydia — aggiunse — si stava avverando. «Hanno pranzato con noi due sere fa; e mio Dio! Il passerotto si sta già trasformando in una gallina, riservata, silenziosa, seria, matura, completa di uovo, penne e coccodè. Uno spettacolo davvero triste, e vedo avvicinarsi il giorno in cui non sopporterà nessuna allusione alla danza». Credo che Virginia esagerasse. La ballerina-passerotto continuò a saltare con grazia da un ramo all’altro; e lo scoiattolo non smise di lustrarsi il naso con le piccole zampe anteriori.