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 2012  novembre 21 Mercoledì calendario

IL MASTER? L’HO FATTO AL BAR GIANNI


[GIAN LUCA SGHEDONI]

Occhio azzurro, mento volitivo, fisico asciutto, gesti sicuri. Gian Luca Sghedoni, anni 45, è di Sassuolo. A Sassuolo ha reso internazionale la sua azienda, la Kerakoll, fino al 1990 diretta dal padre Romano: lui l’ha trasformata in ­leader mondiale del GreenBuilding, portandola da 11 a 350 milioni di fatturato.
GreenBuilding vuol dire edilizia sostenibile, immobili costruiti con materiali atossici e naturali, a basso impatto ambientale e consumo energetico. Vuol dire anche business e un modo diverso di fare impresa. Oggi Kerakoll impiega oltre 1.300 dipendenti, ha 12 società e 10 stabilimenti in Italia e all’estero, 3 centri di ricerca, 3 scuole di formazione, realizza il 40 per cento del suo fatturato all’estero, ha vinto il Premio Natura 2012, il Green­ Life 2010, il TTA Awards per la migliore iniziativa in campo ambientale, investe il 5,4 per cento del fatturato in ricerca, i suoi materiali sono stati scelti da architetti come Frank O. Gehry, Zaha Hadid, ­Jean Nouvel, Renzo Piano, Calatrava.
La svolta verde all’azienda l’ha data nel 2000 Gian Luca, che incontriamo nel GreenLab, un centro ricerca e sviluppo che si inaugura il 22 novembre. Costruito con i criteri della bioarchitettura, Green­Lab ha 9 laboratori, 100 ricercatori.
Nei progetti di Sghedoni, sarà il cuore del Kerakoll Green Village, polo produttivo d’eccellenza per le tecnologie verdi. Tutto è cominciato nel 1968 nel garage di casa del padre.

Lei è nato nel ’67, quasi assieme all’azienda. Che cosa ricorda di quegli anni?
«Io e i miei fratelli Fabio ed Emilia, che lavorano con me, siamo cresciuti tra gli esperimenti di nostro padre. Un giorno la maestra convocò mia madre e le chiese: “Ma suo marito che mestiere fa?”. Avevo scritto che faceva il pensatore. Siamo cresciuti con l’idea che un imprenditore deve fare prodotti innovativi e non smettere mai di cercare strade nuove. Tuttora, se qualcuno mi dice che qualcosa non si può fare, non mi arrendo finché non dimostriamo il contrario».
Gli inizi furono facili per suo padre?
«Per nulla. A Sassuolo tutti facevano ceramica. Mio padre, che vendeva vernici, voleva creare qualcosa di suo. Un giorno un amico gli parla di una nuova colla francese per piastrelle. Lui corre a Bologna a comprarla, la studia, e fa esperimenti in garage per riprodurla. Ci riesce, ma quando va a proporla ai rivenditori gli dicono che non l’avrebbe comprata nessuno. Il mondo dell’edilizia è conservatore. Lui insiste, prova con altri prodotti e va alla Fiera di Milano, espone il suo standino col nome della ditta, Edilcoll, e quello di fronte gli dice: “Guarda che Edilcoll sono io”. È tornato a casa e ha cambiato nome. È nata Kerakoll».
Quando, nel 1992, decise di rilevare l’azienda qual era il suo obiettivo?
«Ho cominciato a lavorare subito dopo il diploma in ragioneria. Non volevo entrare in azienda per fare il figlio del padrone, tantomeno volevo essere il classico imprenditore di seconda generazione che vive sugli allori. Ho cominciato nel reparto vendite, è il modo migliore per conoscere quello che produci e le esigenze dei clienti. Per un anno e mezzo non ho parlato, ma ascoltato e osservato. Volevo imparare e capire se ero capace. Le aziende non si ereditano, ma si conquistano sul campo. Se non fossi stato sicuro, mio padre avrebbe venduto ad altri».
Lei non definisce chi lavora in Kerakoll dipendente, ma collaboratore. Perché?
«Sono le persone a fare la ricchezza di un’impresa, che cresce se ogni anno cresce anche il livello medio di chi ci lavora. La persona deve andare bene all’azienda, ma anche l’azienda deve essere all’altezza delle sue aspettative. In Kerakoll selezioniamo con cura i curricula e svolgo personalmente i colloqui. Vogliamo i migliori: mettiamo in chiaro i ruoli e le responsabilità, perché solo così dai alla gente la possibilità di dimostrare quanto vale».
Scegliere è facile?
«No. Il curriculum e la scuola non bastano. Indispensabili sono i valori appresi per educazione, famiglia, storia. La professionalità la si può costruire e migliorare, i valori o li hai o non li hai. Da noi l’ambizione è diventare grandi restando umili e aperti».
Sta male quando dice di no a qualcuno?
«Mi è capitato, soprattutto in Sud Italia. Magari avevo bisogno di tre persone e ne avevo davanti dieci bravissime. Nel Sud c’è tantissima gente brava che si fa un mazzo così per studiare e lavorare».
Avete creato un campus con corsi di formazione gratuiti per addetti ai lavori, dagli architetti ai piastrellisti, per mostrare uso e vantaggi dei prodotti. È insolito.
«Ma fondamentale perché sono i rivenditori e i posatori a decidere il successo di un materiale. Formiamo circa 90
mila operatori all’anno in Italia e 4 mila nel nostro campus. Le nostre colle, vernici all’acqua, le malte, la biocalce, gli isolanti atossici non avrebbero avuto il successo che hanno se non ci fossimo confrontati con chi lavora in cantiere. L’idea della biocalce è nata in Toscana lavorando con artigiani che ricordavano quanto si respirava meglio nelle case rivestite a calce naturale. Non la produceva più nessuno, ora per noi è un fatturato di 25 milioni l’anno».
E l’idea di investire nel GreenBuilding?
«Nel 2000 acquisimmo un’azienda leader europea nella produzione di colle e vernici per parquet. Ma erano fatte con gli scarti della peggior produzione chimica. Un controsenso usare un prodotto tossico per un materiale naturale come il legno. Mi dissero che non si poteva cambiare. Invece di arrenderci abbiamo prodotto una vernice atossica con il solvente più semplice che c’è, l’acqua. Questo ha permesso anche di eliminare le malattie professionali degli applicatori e permetterà alla gente di ammalarsi di meno».
In che senso?
«Numerosi studi dimostrano che dentro le case l’aria può essere inquinata da 2 a 5 volte più che all’esterno a causa delle sostanze tossiche dei materiali di costruzione. In Europa 75 milioni di persone soffrono di Sbs, sindrome da edificio malato, che dà allergie, asma, irritazioni».
Lei ha tre figli. Come li cresce per evitare che diventino i figli del padrone?
«Poche parole, molto esempio: ognuno deve trovare la propria passione. E liberi nel pensiero perché nella vita riesci se fai il mestiere per cui sei portato. L’ho imparato alla scuola del bar».
Scusi?
«Sì, il bar Gianni. Lì ho fatto i miei master, partite a briscola fino a notte. Lì ho capito che chi era leader al bar lo era anche nella vita. E le donne erano bandite».
Eravate così maschilisti?
«Le donne preferivamo vederle fuori».
Lei colleziona arte contemporanea. Investimento o passione?
«Passione. Scelgo d’istinto. Amo Murakami, Damien Hirst, Cindy Sherman... Ogni mattina faccio il giro della casa e me li guardo prima di colazione».
Le piacerebbe rifare l’Italia?
«Mi accontento di rifare le case».