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 2012  novembre 21 Mercoledì calendario

ARISA – IO DEVO AMARE (LEGGERMENTE


Con lui era finita. E io, in un bel bagno di umiltà, ho ripreso l’analisi che avevo smesso: “Dottoressa, guardi, qui va così, lei è sicura che io ci stia capendo qualcosa?”».

È metà mattina di un mercoledì a Milano, dall’ultimo piano del grattacielo della Warner Music si vedono i tram passare piccoli su piazza della Repubblica e Arisa sotto la frangia scombinata prova a svegliarsi dai suoi sbadigli distratti con una spremuta e una merendina. Le chiedo se sia stanca. «Non mi fermo da quattro anni. Ma adesso sto cercando di ricongiungermi con la mia anima».
Con La notte, allo scorso Sanremo, ha scandagliato «il dolore che sale e fa male», quello per la chiusura della storia con il fidanzato di sempre, il suo insegnante alla scuola di Mogol, Giuseppe Anastasi, poi rimasto autore delle sue canzoni. Adesso, con Meraviglioso amore mio, uno dei due inediti dell’album Amami Tour, racconta quello che viene dopo. Quando trovi un altro che ti fa dire: «Chiudi la finestra che c’è troppo sole anche quando piove». Così accadeva, fino a qualche tempo fa, con Lorenzo, che fa il produttore. Si erano conosciuti nel dietro le quinte di Victor Victoria. Dura da due anni: «Ci siamo rimessi insieme, anche se non viviamo più insieme».

Che cosa era andato storto?
«La convivenza non fa per me. Le mie storie si sono spente tutte sotto un tetto. Mi passa la voglia, chiusa la porta di casa, di dover essere ancora qualcosa per qualcun altro, dopo una giornata in cui di ruoli già ne ricopro tanti: cantante, attrice, giudice. Chi l’ha detto che bisogna per forza? Sposarsi, poi? A un certo punto, provo claustrofobia. Desidero silenzio intorno. Mi manca quello spazio di libertà e gioco che mi sono costruita fin da piccola».
Come?
«Sono cresciuta a Pignola, provincia di Potenza. Mio padre lavorava la terra, era geloso di me, non mi faceva uscire. Così io imparavo, nella mia stanza, a stare sola. Lì è nato tutto: educavo il naso a riconoscere l’odore di basilico, e l’orecchio il passo di mia madre che risaliva le scale dal giardino con una ciotola di pomodori freschi appena colti, mentre io nascondevo per tempo il diario, e preparavo sorriso e quaderno per accoglierla».
Oggi dove vive?
«In un appartamento a Milano, 60 metri quadri comprati con un mutuo che finirò di pagare tra 24 anni, e riempiti di lampade, tappeti e quadri astratti che dipingo, e poi osservo, per vederci dentro figure: il profilo di una donna piangente, il palazzo davanti casa mia, lo stomaco con tutti i miei tentativi d’amore».
Lei con i suoi ex chiude, ma non taglia.
«L’amore non può finire con l’affinità sessuale».
E Agata, la figlia che stava cercando?
«I tarocchi dicono che non è tempo: la vedono tra 4 anni, anche se io la immagino già. Mia madre ha avuto 8 gravidanze, ha perso 5 bambini, siamo nate in tre. E io a 30 anni, per strada, non ho paura dei bambini, li guardo e mi fido. Senza condizioni. Tranne una: la penso femmina. Con i boccoli alla Shirley Temple. Le metterò scarpette rosse e vestitini gialli con i gelati disegnati».
La farebbe anche sola?
«Penso di sì. Avrei solo paura, senza un mediatore, di diventare un peso, di essere morbosa. Durante certe litigate ci saremmo uccise, mia madre e io».
E vuole una femmina: orgoglio di genere?
«Per niente: ho sempre desiderato essere un maschio. A loro i no escono più facili. Io ci provo. Il primo lo ricordo ancora. Detto a mio padre, a tavola. Avevo 22 anni e voleva farmi assumere come bigliettaia alle Scale Mobili di Potenza. Avrei preso mille euro, lui ci aveva mantenuto una famiglia, ma io avrei ammazzato i miei sogni».
Nel suo libro, Il paradiso non è un granché, racconta di un ménage à trois. Fantasia?
«Sonia, la vicina che descrivo, è il frutto di un incontro vero. Ho avuto come dirimpettaia una brasiliana splendida, che riceveva uomini a pagamento. Mi affascinava. Per la dignità con cui usava il suo corpo, per come cucinava la cena agli amici, per i soldi che spediva alla famiglia, per il suo cane, tenuto bene».
Lì ci finisce tra le lenzuola, «in un intreccio di gambe e piedi».
«Nella realtà, il nostro è stato solo uno scambio mentale. Detto questo, quando la cliente di un bar dove ero cameriera – gelosa delle mie attenzioni per un ragazzo – mi chiese se ero etero, risposi: “Fino a mo’, sì”. Ne ho parlato nelle interviste e mi hanno etichettata come bisessuale. Ma lo siamo tutti, bisessuali, perché per fortuna ci si innamora delle persone, non degli organi genitali. E se mi corteggiano, io reagisco come quando dopo Sincerità mi chiedevano l’autografo: “Sicuro? Che te ne fai?”. Anche per questo ho avuto pochi uomini».
Anche per questo: per che cos’altro?
«Io, prima di darmi a qualcuno, devo “amare leggermente”: avere percezione del suo odore, del suo corpo, della sua mente».
Ci vuole tempo.
«E va bene così. Non ho più fretta di dimostrare, ho smesso di correre. Però mi contraddico spesso. E ho il brutto vizio di cambiare idea. Meno male».