Silvia Nucini, VanityFair 21/11/2012, 21 novembre 2012
GLI HO DATO LA VITA LUI L’HA DATA ALL’ALCOL
[varie storie]
FRANCA, 61 ANNI, MADRE
Tenevo un biglietto nel portafoglio, il biglietto diceva: “Io non posso fare niente”. Lo guardavo spesso perché non è facile se sei una madre, se quel figlio lo hai fatto e cresciuto tu, arrenderti all’idea che non gli puoi salvare la vita. Aveva cominciato a bere quando era già fuori casa, sposato: un professionista trentenne con una bella moglie e una bella vita. Un giorno mi chiamano: è in ospedale per un’emorragia gastrica, quella fu la prima. E da lì tutto è andato in pezzi: lei è andata via, il lavoro fisso l’ha perso, ha cominciato a fare incidenti, uno dietro l’altro, guidava ubriaco e io ogni volta avevo paura che morisse. Con me lui è sempre stato tenero, ero io quella violenta, esplodevo di rabbia. Non riuscivo neanche più a camminare in montagna, l’unico piacere che mi sono regalata nella vita, e non riuscivo a parlarne: ancora adesso nessuno sa, anche se sospettano in tanti. Ho cominciato a frequentare i gruppi 6 anni fa e parlando parlando mi sono accorta di una cosa che non avevo mai voluto vedere: anche mio marito era un alcolista. Ma era mio figlio che io volevo salvare. Mi hanno insegnato che era un miracolo che solo lui poteva fare e che, comunque fosse andata, io non avevo colpe. Quattro anni fa è entrato in comunità, da un anno vive all’estero. Ho la tentazione di pensare che lontano ci potrebbe ricadere, ma poi mi fido di lui, perché è tutto quello che posso fare».
NOSTRA FIGLIA DICEVA: LASCIALO–
ANNA, 49 ANNI, MOGLIE
Lo sentivo nel letto, di notte: tremava dal freddo. E poi la mattina la prima cosa che faceva era andare in bagno, a vomitare. Io intanto non mangiavo niente, non pesavo niente, non valevo niente. Di giorno c’era il lavoro, ma la sera si metteva davanti alla Tv col bottiglione; ci parlava anche con la Tv perché io uscivo con nostra figlia, lontane da lì e da lui. Però poi dovevamo tornare. La ragazza mi diceva di lasciarlo e io non l’ho mai voluto fare: dovevo stargli vicino. A fare che cosa non lo so. Poi ciò che c’era da fare l’ho capito quando mi hanno dato il numero di telefono del gruppo di auto aiuto della mia città. Ci siamo andate subito, io e mia figlia, andavo a tutti gli incontri e non aprivamo bocca. E se non c’erano incontri eravamo a casa di qualcuno conosciuto lì: dovevamo stare con chi poteva capire. Ho realizzato che Daniele, per risalire, doveva toccare il suo fondo e un giorno è successo, sul lavoro. C’è stato un diverbio e il suo capo gli ha chiesto: “Sei ubriaco?”. E lui, per la prima volta, ha detto: sì. Era il 29 marzo del 2005. La sera stessa è andato a un gruppo degli Alcolisti Anonimi. Non tocca alcol da quel giorno, ma ancora il patto non va oltre le 24 ore: fino a domani non bevo. Così da 7 anni. Ma funziona. La ricostruzione dei rapporti non è facile, soprattutto con nostra figlia, ma piano piano le cose stanno trovando il loro posto. Anche io mi sono dovuta ricostruire, trovare il mio valore, assolvermi da colpe che non ho, assumermi responsabilità che invece mi toccano, come quella di aver fatto finta di niente per tanto tempo».
IN CASA ENTRAVA SOLO VERGOGNA –
CARMEN, 36 ANNI, FIGLIA
Mio padre beveva da sempre, da prima che io nascessi. C’era qualcosa di strano in casa mia: non entrava mai nessuno, solo la vergogna. Le giornate di mia madre si consumavano intorno alla sua lotta contro il vizio del marito e io, bambina, mi sono ritrovata a fare da genitore a tutti e due, a coprire i buchi. Mi sono veramente accorta che il problema era l’alcol quando lei è morta e ci siamo ritrovati soli: un alcolista e una ragazzina di 16 anni attratta inesorabilmente da persone problematiche. Vivevo in un costante stato d’allerta, ormai sapevo se aveva bevuto da come apriva la porta di casa. Ho cominciato a frequentare i gruppi di aiuto Al-Anon teen (quelli per i ragazzini, ndr) anche se lui non voleva e anche se lui non ha mai intrapreso un percorso di cura per risolvere il suo problema. Lì ho imparato che non potevo e non dovevo controllare la sua vita, che restituendogli le sue responsabilità, gli ridavo anche una dignità come essere umano e come padre. Nonostante la sua dipendenza lui è stato una delle persone più importanti della mia vita e mi ha dato dei principi fondamentali. Adesso non c’è più da quattro anni – un tumore l’ha portato via – ma io continuo a frequentare il gruppo per gratitudine perché, curandomi anche io, ho riavuto un papà».
HO SPERATO
CHE MORISSE–
MATILDE, 37 ANNI, SORELLA
Nei gruppi si dice che dove c’è un alcolista c’è un Al- Anon: qualcuno che pensa di salvarlo e che diventa complice involontario della sua malattia. Nella mia famiglia la salvatrice sono io. Mio fratello è il mio fratellone grande, che ha cominciato a bere e a drogarsi quando io ero una ragazzina. Dicevamo di lui: è un cretino. Ma mai “è un alcolista”, che era la cosa giusta da dire. Lui piano piano è diventato il polo d’attrazione negativo della famiglia e la mia personale ossessione. Passavo il tempo a controllarlo e, se non ce l’avevo sott’occhio, a chiamare mia mamma per chiedere: “È successo qualcosa?”. Avevo paura che lui morisse, ma ho anche sperato tantissimo che succedesse e poi pensato che potevo ammazzarlo io, così tutto sarebbe finito, la mia vita avrebbe potuto continuare. C’era questa cosa strana per cui lui beveva l’alcol e io bevevo lui: ero anche io dipendente a mio modo. Dicevo di amarlo tanto, ma in fondo lo trattavo come una persona invisibile e senza alcuna dignità: se c’era da fare un regalo alla mamma noi fratelli non lo contavamo nemmeno, come se non esistesse. Naturalmente tutto questo mi è stato chiaro solo molto tempo dopo, quando ho iniziato a frequentare il gruppo. Grazie al mio percorso e alla consapevolezza a un certo punto mi sono tolta, ho smesso di interessarmi a lui e guarda caso è stato allora che ha iniziato a curarsi. Non dico che il mio percorso sia stato più difficile del suo, ma quasi: non avevo più stima di me, cercavo solo rapporti con persone come lui, degli alcolisti. Adesso è sobrio, ma io frequento ancora il gruppo, perché la paura, la rabbia e la vergogna fanno fatica ad andare via».