Claudio Colombo, Corriere della Sera 23/11/2012, 23 novembre 2012
CAMACHO, L’EPILOGO DI UN CAMPIONE ESAGERATO
La «morte cerebrale» di Hector Macho Camacho è stata annunciata ieri dal dottor Ernesto Torres, direttore del Centro Medico di Roo Piedras, dove l’ex pugile è ricoverato per aver ricevuto un colpo di pistola al volto. Ora i familiari decideranno se staccare il respiratore che lo tiene in vita. Le vite degli altri sono sempre discutibili, ma quella di Hector «Macho» Camacho è stata, nel suo piccolo, l’esistenza-simbolo di un pugilato da cartolina, furioso e cattivo, scenografico ed esagerato, disperato e ribelle. Uno che nasce a Portorico, cresce nelle baby-gang di New York e si dedica alla boxe sa già di imboccare una strada difficile e scivolosa, piena di curve e rischi. Già dal soprannome, Camacho intendeva imporre la sua figura di uomo senza paura, al di là di quel viso vagamente effeminato che un folle sparatore ha devastato con un proiettile. Si dice sempre, in questi casi, che doveva finire così. Perché il lato oscuro di una vita appassionata ma sempre sul filo del rasoio aveva fatto di Camacho un naturale candidato all’epilogo violento. Come Mike Tyson, che però sembra aver raddrizzato l’esistenza in tempo utile, ma dal quale ci si aspetta sempre il peggio. E come tanti altri, da Sonny Liston in qua, traditi da amicizie pericolose e spesso fatali.
Sul ring, Macho saliva con indumenti bizzarri — frange da comparsa western, mutandoni leopardati, accappatoi da Capitan America — ma non si può negare che possedesse, agli occhi degli appassionati, la vera arte del pugno, coniugata a un coraggio che lo portava a interpretare ogni match come se fosse l’ultimo della vita. Carriera lunga, la sua, e dispendiosa. Nato nel 1962, Camacho ha combattuto fino al 2010. Ventotto anni «ufficiali» ai quali vanno sottratti gli ultimi quindici, come sovente accade per quegli atleti del ring che, arrivati al culmine, si spingono ancora oltre, inconsapevoli di auto-infliggersi l’oltraggio della comparsata fine a se stessa, prigionieri del passato, repliche stanche bisognose di considerazione e dollari.
Ma nel suo periodo d’oro Camacho fu pugile eccellente, eccome: tre volte campione in tre categorie diverse (leggeri junior, leggeri, welter junior), superò gente tosta come Edwin Rosario, Cornelius Boza-Edwards, Ray «boom boom» Mancini, Vinny Pazienza e Greg Haugen. Sconfisse (anche) un ultraquarantenne Sugar Leonard, costringendolo al ritiro, e un ultracinquantenne Roberto Duran, ma nulla potè contro il coetaneo Julio Cesar Chavez, fenomeno assoluto, e la generazione anni ’90 con le sue icone Felix Trinidad e Oscar de la Hoya, dai quali fu battuto (largamente) pur rimanendo in piedi per tutti i dodici round.
Droga, alcol, violenze e galera segnarono i suoi anni Duemila: un decennio di lenta, inesorabile discesa all’inferno. Trasferitosi a Miami, Macho diventò campione del «Ballando con le stelle» in salsa latina, e fu scritturato per un programma («Es Macho Time») che ripercorreva la sua esistenza, opportunamente depurata da ogni scoria tossica. Un reality lontano dalla realtà per un idolo a prescindere, come testimoniano le numerose attestazioni di amicizia che stanno arrivando in queste ore alla sua famiglia.
Claudio Colombo