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 2012  novembre 23 Venerdì calendario

QUEL «FIORE» SOSPESO TRA DANTE E GUITTONE

Intorno al 1921, sesto anniversario della morte del poeta, l’operosità dei dantisti toccò un picco straordinario: a studiosi e amanti della poesia venne offerto un volume, diretto da Michele Barbi, contenente, in edizione critica, tutte le opere di Dante. Nell’approssimarsi del settimo centenario, il Centro Pio Rajna di Roma avvia una nuova edizione (sigla Necod: Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante, pubblicata dalla Salerno Editrice).
A quasi cent’anni dall’impresa di Barbi, questa nuova edizione permetterà non solo di fare il punto sulle principali acquisizioni dell’ultimo secolo, escludendo il troppo e il vano, ma anche di trarre il meglio, in un commento compatto ed esauriente, dalla massa di contributi linguistici, ermeneutici, storici che ormai riempiono gli scaffali.
La Necod persegue un altro obiettivo non secondario: che tutti i volumi appaiano entro un ridotto arco cronologico, così da evitare sfasamenti nell’informazione. Il coordinatore (Enrico Malato) e i collaboratori danno le migliori garanzie in merito alla tempestività (punto debole di tutte le collane di classici), ed è facile prevedere che quest’opera, pianificata in otto volumi, alcuni divisi in più tomi, si concluderà in tempi ragionevoli.
Si parte ora, con due volumi di eccezionale interesse: il Fiore, «attribuibile» a Dante (Luciano Formisano), e il De vulgari eloquentia, fondazione, e progetto quasi profetico, di una poesia italiana auspicata e poi avviata in prima persona (Enrico Fenzi, con L. Formisano e F. Montuori).
Iniziando dalla struttura dei volumi, noteremo che la Necod offre innovazioni di grande utilità pratica. Per il De vulgari, ad esempio, le carte geografiche ci aiutano a ricostruire l’aspetto politico dell’Italia del primo Trecento e a focalizzare la poco fortunata ma geniale idea di Dante di far prevalere, nel censimento dei dialetti, le contrapposizioni verticali (sinistra o destra dell’Appennino) rispetto a quelle orizzontali, adottate anche oggi dai linguisti (nord-centro-sud). Nella prima appendice del volume appare preziosa l’edizione, con versione italiana e commento, dei testi poetici provenzali e francesi citati da Dante. Quanto al volume dedicato al Fiore, la cui lingua si caratterizza per un vistoso impasto franco-italiano, è utilissimo l’indice dei gallicismi presenti nel testo. Un’altra novità è la Tavola delle corrispondenze tra il poemetto e il Roman de la Rose, di cui il Fiore è una sintesi.
Appunto di questo volume, magnifico nella stampa e nella legatura (Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, pp. CVIII-480, € 39), vogliamo parlare qui. Il punto di partenza è il celebre Roman de la Rose, di cui, intorno al 1230, uno sconosciuto Guillaume de Lorris compose i primi 4.000 versi; poi, verso il 1270-80, il parigino Jean de Meun, vicino agli ambienti universitari e ben al corrente della situazione politica e religiosa dell’epoca, continuò il testo per oltre 18.000 versi. In forma di sogno, il Roman racconta la passeggiata primaverile del protagonista, ventenne, sino al giardino di Piacere, un piccolo paradiso chiuso tra alte mura, su cui sono rappresentati i vizi, personificati, che si oppongono alla Cortesia (Odio, Fellonia, Villania, ecc.). Nel giardino, dove Piacere danza con le sue compagne Allegria, Cortesia, Bellezza, il protagonista viene attratto da un cespuglio di rose, e in particolare da un bocciolo. Il Dio d’Amore lo colpisce con le sue frecce, facendolo innamorare del bocciolo, evidente simbolo dell’amata e del suo sesso. Il sogno prosegue con i tentativi di cogliere il bocciolo, tra consigli e moniti di tematica amorosa. Alla fine la Rosa viene chiusa in una torre, sorvegliata da una vecchia e da altre personificazioni, come Vergogna, Paura, Maldicenza. Lungo quest’esile filo narrativo, gli insegnamenti fanno del Roman de la Rose un «trattato d’amore», conforme a un progetto didattico in voga nel tardo Medioevo; ma l’opera ci offre anche, in qualche modo, una vera enciclopedia del sapere dell’epoca. Da aggiungere che Guillaume de Lorris muove da un’ispirazione cortese e idealizzante, mentre Jean de Meun gli subentra con una concezione naturalista, se non positivista, e sostanzialmente misogina.
Uno sconosciuto autore toscano ha provato ben due volte a ricreare questa grande costruzione didattico-enciclopedica; usava il suo volgare, ma inserendovi moltissime parole francesi, anche indipendentemente dal modello che traduceva. Ne sono venuti fuori il Detto d’Amore, in coppie di settenari, e di gusto allegorico; e il più ampio Fiore, costruito, con più netto andamento narrativo, in forma di catena di 232 sonetti. I due testi anonimi, scoperti nel 1878 in un manoscritto conservato a Montpellier, hanno fatto subito deflagrare una polemica che dura ancora. Perché essi presentano affinità anche tematiche con la Commedia, e alcuni filologi li attribuirono senz’altro a Dante, mentre altrettanti, e altrettanto autorevoli studiosi esclusero subito questa paternità. La polemica covava sotto le ceneri quando, a partire dal 1965, Contini iniziò a riproporre l’attribuzione a Dante e, con il suo immenso prestigio, parve mettere un sigillo di autenticità all’attribuzione. Invece, ripresero gli interventi degli increduli, sempre più scaltriti.
Di solito, quando si affrontano problemi attributivi, frequenti anche in pittura, si cercano negli autori del tempo affinità formali o procedimenti tecnici o dati culturali che autorizzino a pensare che il testo anonimo e quello ritenuto affine risalgano a una stessa mano. Così, per il Fiore, si è pensato a Rustico Filippi, a Folgòre da San Gimignano, ad Antonio Pucci, a Brunetto Latini. Ma poi, si sa, le sensibilità agli elementi formali variano, e ciò che appare decisivo ad uno può non sembrarlo ad altri. Formisano per esempio, pur difendendo nei limiti del possibile la tesi di Contini, guarda con interesse alle rassomiglianze del Fiore con gli scritti di Brunetto. Ci sembra che tutti questi raffronti confermino una comunanza di ambiente e di stile tra poeti contemporanei; niente di più. Ma poi vari indizi compromettono l’attribuzione dantesca: tra i molti, l’abuso di rime equivoche e di scomposizione «enigmistica» del verso, caratteristici del Detto d’Amore, che sicuramente è della stessa mano del Fiore. Sono proprio le tecniche di Guittone e seguaci, che Dante detestava. Segnaliamo anche, nel Fiore, la scarsa ricerca espressionistica, che la mescolanza delle due lingue avrebbe potuto stimolare; e l’abbondanza di metafore oscene di grana più grossa delle poche, efficacissime, del vero Dante.
Comunque, dato che i raffronti con altri autori non risultano concludenti, è inutile continuar a cercare un’identità già nota. Si potrebbe pensare che il poeta del Fiore sia un outsider appassionato di poesia che, dopo l’exploit dei due rifacimenti della Rose, intraprese una diversa carriera, per esempio di mercante, come tanti altri fiorentini all’opera tra l’Italia e la Francia delle grandi fiere commerciali (il manoscritto del Fiore è sempre rimasto in Francia): il curioso mélange di toscano e francese dei due testi rispecchierebbe, quasi in caricatura, il bilinguismo «professionale» del loro autore, che potrebbe anche esser morto poco dopo la stesura del poemetto. Comunque, piuttosto che dargli un nome, è meglio impegnarsi a leggerne l’opera, notevolissima, con l’aiuto, eccellente, di Luciano Formisano.
Cesare Segre