Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 22 Giovedì calendario

LA VERA POSTA IN GIOCO NELL’OFFENSIVA A GAZA


ISRAELE VUOLE SOLO DIFENDERSI–
di Naor Gilon*
La popolazione del sud di Israele vive da anni sotto la minaccia dei missili provenienti da Gaza. Basti pensare che, dall’inizio del 2012 sino a prima dell’inizio dell’operazione Pilastro di difesa, sono caduti sulle città israeliane più di 800 missili. Dopo l’operazione Piombo fuso nel 2008, infatti, Hamas ha lavorato attivamente per ricostruire il suo arsenale militare, ricevendo missili dall’Iran capaci di raggiungere Tel Aviv e Gerusalemme. Il risultato è che, ad appena 4 anni di distanza, oltre metà della popolazione israeliana rappresenta oggi un obiettivo. Questa situazione, divenuta intollerabile, ha costretto Israele a intraprendere un’azione militare, il cui scopo è la difesa della popolazione civile israeliana e la distruzione delle capacità militari di Hamas.
Riteniamo che in Occidente ci sia una generale incomprensione della realtà israeliana. L’operazione militare israeliana a Gaza ha ricevuto il sostegno del presidente americano Barack Obama e di molti leader europei, compresi quelli italiani. Israele non attacca volutamente la popolazione civile e fa ogni sforzo per ridurre al minimo il numero di vittime innocenti. Purtroppo Hamas agisce esattamente al contrario, colpendo volontariamente la popolazione israeliana e usando i civili palestinesi come scudi umani. Il loro obiettivo è chiaro: più vittime civili uguale maggiore pressione su Israele per interrompere l’operazione militare.
Questa nuova crisi ci deve fare riflettere attentamente sull’azione unilaterale che l’Anp intende intraprendere all’Onu a fine novembre. Se Abu Mazen ottenesse lo status di «stato non membro» per la Palestina, infatti, diventerebbe il primo responsabile del lancio dei missili su Israele provenienti da Gaza. Riteniamo, quindi, che una simile iniziativa non possa che indebolire il presidente palestinese a livello sia interno sia internazionale, rendendo molto difficile trovare una soluzione di pace al conflitto israelo-palestinese. Israele crede che una reale soluzione al conflitto possa essere raggiunta per mezzo di un ruolo attivo dei leader regionali come l’Egitto. Speriamo quindi che ciò accada e che questo conflitto venga risolto il prima possibile, restituendo tranquillità alle popolazioni.

*ambasciatore di Israele in Italia

HAMAS ADESSO È PIÙ FORTE–
di Paola Caridi*
Succede ogni volta così: Hamas si rafforza con le guerre, le crisi, persino con i tentativi (spesso riusciti da parte di Israele) di uccidere i propri leader. Nel quarto di secolo della sua esistenza Hamas è rinato dalle sue ceneri. E succederà dopo questa guerra. Oltre 100 morti, 1.000 feriti, uffici e sedi istituzionali distrutti assieme alle case civili, il leader delle Brigate al-Qassam ucciso: una débâcle? Al contrario, la guerra ha rinserrato i ranghi contro Israele e appianato le differenze dentro Hamas, che sta vivendo da oltre un anno una delicata transizione nei suoi equilibri interni. Due linee si stavano contendendo la leadership: quella di Ismail Haniyeh, premier a Gaza, e quella di Khaled Meshaal, capo del politburo, l’uomo che ha chiuso l’ufficio di Damasco e ha deciso di rinsaldare i rapporti con Qatar, Egitto e Turchia, a spese dell’alleanza tattica con Teheran. La guerra ha compattato militanza e vertici di Hamas, che sentivano il fiato sul collo dei salafiti e jihadisti dentro Gaza, oltre l’insoddisfazione della gente per un movimento diventato sempre più un regime. Il risultato più importante per Hamas, raggiunto attraverso il conflitto, è che l’Islam politico palestinese è ora a tutti gli effetti parte dell’islamismo arabo e mediorientale. Con Hamas si tratta, mentre Mahmoud Abbas è messo all’angolo. Fuori l’Anp, è probabile che i palestinesi tentino di unirsi dentro una Olp riformata, in cui, questo è l’obiettivo di Meshaal e dei suoi «fratelli», entrerà anche Hamas.
*analista, autrice del libro «Hamas»

L’IRAN NE ESCE INDEBOLITO–

di Sanam Vakil*
La nuova ondata di violenze fra Israele e Hamas ha risvegliato l’interesse nell’opaca relazione tra il movimento e Teheran che risalgono agli anni Novanta. La relazione è divenuta più forte dopo le elezioni a Gaza del 2006, vinte da Hamas. Il movimento ha beneficiato degli aiuti finanziari e militari dell’Iran, come si evincerebbe dai missili lanciati di recente su Israele.
Per Teheran le relazioni con Hamas rappresentano una strada per rafforzare il proprio ruolo nella regione. Un modo per guadagnare accesso al Mediterraneo sfidando Israele e i paesi arabi. Durante l’attacco israeliano a Gaza del 2008- 2009, l’enorme sostegno iraniano ai palestinesi ha messo in difficoltà paesi come Egitto e Arabia Saudita, costretti a un difficile equilibrio tra un’opinione pubblica favorevole ai palestinesi e la necessità di un sostegno alle posizioni più pragmatiche di al-Fatah. Sebbene Hamas e Iran abbiano sottolineato l’importanza strategica della loro relazione, l’alleanza ha subito un colpo, a causa del sostegno di Teheran al regime screditato di Bashar al-Assad. Nel nuovo panorama regionale l’influenza iraniana è chiaramente in declino e i suoi legami con Hamas meno solidi di quanto ci si potrebbe aspettare.
*professore aggiunto alla Johns Hopkins University School of advanced international studies di Bologna

EGITTO E USA SU POSIZIONI VICINE–
di Samer Shehata*
La Casa Bianca sta chiaramente con Israele e non sembra, dai segnali dati, che intenda cambiare atteggiamento. È una posizione che muterebbe se le forze israeliane passassero a un ampio intervento di terra: in quel caso gli Usa invocherebbero una soluzione, pur senza strappi. Anche l’Egitto ha cercato di bloccare al più presto il conflitto. I diplomatici egiziani lavorano a un accordo che duri e non sono mossi soltanto dalla vicinanza tra Fratelli musulmani e Hamas: il presidente Mohamed Morsi e gli ufficiali di sicurezza egiziani stanno cercando di rappresentare anche gli interessi di potenze come Turchia e Qatar.
È chiaro che non c’è una soluzione militare: Israele non potrà mai evitare che qualcuno dalla Striscia di Gaza spari un razzo verso il suo territorio. Colpire l’arsenale di Hamas (secondo alcuni il vero obiettivo dell’offensiva) è solo una soluzione temporanea. Perciò l’azione dell’Egitto è di tipo politico. Dopo la tregua, con condizioni definite, si proverà a lavorare all’intesa. Ai negoziati Israele avrà una brutta sorpresa: i bombardamenti hanno sfinito Hamas ma hanno rinvigorito la simpatia di molti, soprattutto nel mondo arabo, nei suoi confronti.

*docente di politica araba al Center for contemporary Arab studies della Georgetown University