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 2012  novembre 23 Venerdì calendario

QUELLA POETESSA È TROPPO OSÉ. FINGIAMO CHE SIA MASCHIO


A prima vista, quella di Sulpicia può sembrare una qualunque storia d’amore. Antica, romantica, ma tutto sommato banale. Un amore contrastato, come tanti: lei ricca, nata in una grande famiglia, lui povero, di ambiente socialmente inferiore… Eppure, a distanza di due millenni, in tempi in cui finalmente, quantomeno sul piano formale, alle donne è stata riconosciuta la pienezza dei diritti, vale la pena raccontarla, quella storia, come esempio (fra i tanti) di quanto gli stereotipi di genere abbiano pesato sulle donne. E quanto continuino a pesare su di loro, anche se in minor misura, i pregiudizi che questi stereotipi hanno portato con sé.

Cresciuta tra intellettuali. Ma chi era questa Sulpicia? Era una poetessa vissuta a Roma all’epoca di Augusto, e dunque contemporanea di poeti come Tibullo, Properzio e Ovidio. Ma mentre il nome di questi è noto a chiunque abbia qualche conoscenza della letteratura latina, quello di Sulpicia è ignoto ai più. Le sue poesie, dedicate a un certo Cerinto – le uniche poesie d’amore di una donna romana giunte sino a noi – sono state tramandate sotto il nome di Tibullo. Come e perché questo è accaduto? Per un caso, un incidente, uno sbaglio nella traduzione dei testi? O perché qualcuno ha creduto e voluto così? Nel qual caso, perché lo ha creduto? Vero è che, di per sé, il fatto che le poesie fossero dedicate a un uomo non significava necessariamente che a scriverle fosse stata una donna. All’epoca, gli amori tra uomini erano cosa normalissima. Ma chi ne parlava, nelle sue poesie (Catullo od Orazio, per limitarci a due esempi), lo faceva a nome proprio. Perché Tibullo, fingendo di essere una donna, avrebbe dovuto rinunciare alla paternità letteraria delle elegie per Cerinto? Cominciamo col dire che nulla impediva di credere che Sulpicia avesse scritto delle elegie. Nata in una famiglia molto altolocata e rimasta presto orfana di padre, era stata sottoposta alla tutela dello zio Messalla, nel cui circolo si riunivano gli intellettuali più famosi dell’epoca. E poiché come tutte le ragazze della sua classe sociale aveva ricevuto un’ottima istruzione, aveva tratto buon profitto da queste frequentazioni, affinando la sua naturale vena poetica. Più che possibile, dunque, che le poesie per Cerinto fossero sue. Il primo passo per cercare di capire perché sono state attribuite a Tibullo è quello di leggerle. Sei in tutto, quelle a noi arrivate, raccolte nel Corpus Tibullianum in un ordine che inizia con la dichiarazione di Sulpicia di essersi innamorata: «È giunto amore finalmente. Nasconderlo sarebbe vergogna assai più grave che svelarlo. Commossa dai miei versi, Venere lo portò sino me, tra le mie braccia, compì la sua promessa. I miei peccati li racconti chi si dirà non ebbe i suoi. Io quasi non vorrei neppure scriverli: prima di lui, temo li legga un altro. Ma giova aver peccato. Mi disturba atteggiare il mio volto alla virtù. Si dirà che son degna di lui, e lui di me». Sulpicia ha una storia, dunque: forse ha già un amante. Cosa assolutamente riprovevole per una ragazza da marito, ma Sulpicia non se ne vergogna.

Regalo di compleanno. Anche se, ovviamente, la storia non piace allo zio tutore, che, per allontanarla dall’innamorato, avvicinandosi il compleanno della nipote, vuole festeggiarlo portandola lontano da Roma: «Orribile compleanno, nella campagna odiosa, senza Cerinto, triste a passare. Nulla è più bello della città. Una casa in campagna e un fiume freddo nell’Aretino sono forse più adatti a una ragazza? Suvvia Messalla, non preoccuparti per me. Non sempre, parente mio, son tempestivi i viaggi. Tu mi impedisci di decidere quello che voglio, mi conduci via, ma io lascio qui anima e sensi». Ma, non sappiamo perché, il programma cambia, e Sulpicia lo comunica a Cerinto: «Lo sai che il triste viaggio è scongiurato per la tua ragazza? Potrà passare a Roma il compleanno. Celebriamolo tutti, questo giorno, che ora, forse, ti giunge inaspettato». La storia continua, dunque: a quanto pare Messalla, in un primo momento molto preoccupato per la reputazione della nipote, le concede maggior libertà. Sulpicia se ne compiace: «Mi fa piacere che, finalmente sicuro, tu mi permetta molte cose, senza temere che cada d’improvviso, come una stolta. Preoccupati piuttosto di una toga, di una puttana col suo paniere appesantito. Non di Sulpicia, figlia di Servio. Ma c’è chi si preoccupa per me, che nulla teme più ch’io ceda a un letto ignoto». Quel che sta accadendo, in verità, non è chiarissimo: perché nei versi finali Sulpicia dice che c’è chi teme che “ceda a un letto ignoto”? Chi sono le persone che si preoccupano per lei? Difficile rispondere. Quel che è certo è che la cosa non turba minimamente Sulpicia. Se soffre, è per ragioni diverse: per esempio, quando dubita dell’amore del suo uomo: «Cerinto, non sei in pena per la tua ragazza, il corpo stanco bruciato dalla febbre? Ah, se non pensassi che anche tu lo vuoi io non vorrei sconfiggere il mio male. Che m’importa guarire, se tu puoi sopportare i miei mali a cuor leggero?». Ma poi il comportamento di Cerinto fuga ogni dubbio. E allora è lei, Sulpicia (siamo, con questa, all’ultima poesia) a rimproverarsi per non aver avuto il coraggio di mostrare all’amante l’intensità della sua passione: «Ch’io non sia più, luce mia, il tuo folle amore, come credo d’essere stata ultimamente, se nella mia gioventù ho commesso una colpa di cui confesso di pentirmi di più che di averti lasciato solo la notte scorsa, sperando di nascondere il mio ardore».

Contenuti imbarazzanti. Questa la storia di Sulpicia, in gran parte come lei ce l’ha raccontata, in qualche parte come l’abbiamo immaginata, a partire dalle sue parole. E ora torniamo alla domanda che ci eravamo posti: perché Tibullo avrebbe dovuto scrivere sotto il nome di Sulpicia? Sino ad alcuni decenni or sono, la risposta più frequente era: un esercizio letterario. Una risposta che eliminava l’imbarazzo creato dal contenuto delle poesie. Intendiamoci, che le donne scrivessero versi, a Roma, non era cosa straordinaria. In età di poco posteriore a quella in cui visse la nostra Sulpicia, visse un’altra poetessa, chiamata “l’altra Sulpicia”: per coincidenza, infatti, portava la stesso nome. Ma i versi di questa Sulpicia, andati perduti, erano quelli di una donna virtuosa, come le donne romane dovevano essere: «leggan tutte Sulpicia le fanciulle/ che vogliono piacere a un uomo solo», suggerisce infatti Marziale, «e leggano Sulpicia, quei mariti/ che soltanto alla moglie si interessano». Ma le poesie della Sulpicia che amava Cerinto erano assai meno commendevoli. E in secondo luogo contraddicevano quella che sembrava una regola senza eccezioni: le donne romane, se scrivevano versi, non lo facevano per pubblicarli. Lo facevano per dare sfogo ai loro sentimenti. Sulpicia di Cerinto invece (chiamiamola così) al di là di quelli creati in vita al suo tutore, poneva una serie di problemi anche ai critici del suo tempo, e a quelli che nei secoli si sarebbero occupati di lei. Oggi, dopo decenni di studi sulla condizione femminile, è sin troppo facile leggere, nel rifiuto di riconoscerle la paternità dei suoi scritti, il pregiudizio di coloro che, redigendo il canone, non hanno neppur pensato che una donna potesse scrivere poesie di quel genere. Alcuni, onestamente, hanno ammesso che quelle poesie erano diverse, e vi hanno riconosciuto una mano femminile. Ma, quasi sempre, hanno escluso che avessero un valore letterario: erano cosa da poco, espressione dei trepidi sentimenti di una donna. In sostanza, chi credeva nell’esistenza di Sulpicia tendeva a liquidarla come una dilettante. Ma sbagliava, e a mostrare quanto il pregiudizio li influenzasse sta il riconoscimento di un poeta come Ezra Pound: per tradurre Sulpicia, così come Catullo e Ovidio, scrisse, varrebbe la pena dedicarvi una decina d’anni. Sarebbe davvero bello se il nome di Sulpicia e le sue poesie non fossero note solo agli addetti ai lavori. Sulpicia lo meriterebbe.