Vittorio Zincone, Sette 23/11/2012, 23 novembre 2012
ADESSO LA POLITICA CI AIUTI A CREARE IL DOP DELLA MODA
[intervista a Stefano Ricci]
Da quando è diventato presidente del Centro di Firenze per la Moda Italiana ha deciso di indossare l’elmetto ed entrare in guerra contro chi rovina gli affari e la reputazione del vero made in Italy. Stefano Ricci, 63 anni, raìs del lusso fiorentino, ha fatto sfilare i suoi modelli sartoriali tra le opere rinascimentali degli Uffizi e ha vestito Nelson Mandela dopo la liberazione dalla prigionia. Indossa spudoratamente tutti i simboli tradizionali del benessere italiano. Da film: nei weekend va a caccia, corre la Millemiglia con una Lancia del 1953 e al polso porta un orologio molto scintillante. Cadenza toscana e barba folta, si affaccia sullo schermo del computer fumando una sigaretta dopo l’altra. L’intervista si svolge via Skype. Ricci si trova nel suo ufficio e dietro la scrivania troneggia un gigantesco orso bianco imbalsamato: «L’ho catturato dopo aver passato sedici giorni in slitta al Polo Nord». Ora lo stilista vorrebbe dare la caccia ai cavilli burocratici e alle leggi che permettono a molti imprenditori di spacciare i loro prodotti come made in Italy anche se in realtà non lo sono.
Parliamo di quei formaggi americani con nomi italianeggianti? Il Sarvecchio impacchettato nel Michigan o il Classico confezionato in Oregon?
«Non esattamente. Quella è roba solo “italian sounding”. Io mi riferisco a prodotti che portano proprio il marchio made in Italy».
Mi fa un esempio?
«Qualche settimana fa ero ospite di un amico in Spagna. Lui mi ha indicato le sue vigne e i suoi ulivi e mi ha detto: “Sai che le olive di questi alberi le vendo tutte in Italia?”. Gli ho chiesto: “A chi?”. E lui mi ha fatto il nome di un produttore italiano che smercia il suo olio con etichette insospettabili. Capito? In ogni caso io mi occupo poco di prodotti alimentari e molto di abbigliamento e accessori per la moda».
Quindi di giacche prodotte all’estero su cui viene messa l’etichetta di italianità?
«Già. Ci sono leggi nazionali ed europee che lo permettono. Tu fai cucire un abito in Romania, poi lo riporti in Italia e qui gli attacchi solo i bottoni o gli cuci le asole. Risultato: made in Italy».
Fuori i nomi?
«Non mi pare il caso».
Ma parliamo di truffatori.
«No, le leggi lo consentono».
Se nessuno si accorge dell’escamotage vuol dire che anche in Romania sanno fare il made in Italy?
«Non è così. La tradizione e le regole del nostro territorio garantiscono la qualità, io…».
Non si faccia l’auto spot su quanto lei rispetti la tradizione.
«Ma figuriamoci. La mia lotta è in favore di quei piccoli imprenditori che non si arrendono. Quelli che, malgrado la crisi e i costi insostenibili della manodopera, continuano a confezionare made in Italy al 100%».
Che cosa intende fare per evitare i falsi legalizzati?
«Mi hanno detto che avrò tutti contro e che mi sfracellerò contro un muro, ma cercherò di introdurre un nuovo marchio che individui ciò che è fatto interamente sul territorio nazionale: “Fatto in Italia” o qualcosa di simile».
Una specie di “Dop” dell’abbigliamento.
«Servirebbe anche uno sforzo della politica».
Che cosa c’entra la politica? Sono gli imprenditori a fare i furbi.
«Questi imprenditori che producono fuori e targhettano made in Italy non sono criminali. Si muovono rispettando le leggi. Quindi il problema sono le norme».
Questa mi pare una formuletta per assolvere la sua categoria. La politica che cosa dovrebbe fare?
«Mostrare consapevolezza di quanto sia importante il lavoro sapiente delle nostre maestranze. Come avviene in Francia. I nostri politici non danno nessuna importanza a questo problema. Non capiscono. E guardi che mi riferisco a uomini sia di centrodestra sia di centrosinistra. Vuole un nome?».
Certo.
«Romano Prodi».
Che cosa le ha fatto il Professore?
«Lo incontrai a Firenze, nel salone dei Cinquecento. Era premier. Gli raccontai che io vendevo i miei prodotti sartoriali in Cina dal 1994. Rimase a bocca aperta: “Vende in Cina? Lei dovrebbe produrre in Cina, non vendere”. Non capiva proprio come fosse possibile esportare in Cina in quel periodo».
Gomorra di Roberto Saviano ci ha raccontato che ci sono molti laboratori in cui i cinesi producono anche pezzi per i grandi couturier italiani.
«Teoricamente quello è made in Italy».
Sta scherzando?
«Se questi cinesi cuciono in Italia, hanno contratti regolari e rispettano le regole sulla qualità del lavoro… il loro è made in Italy. Se vengono sottopagati, dormono in fabbrica e non hanno pausa pranzo, se ne devono occupare i Carabinieri».
Ma la tradizione…
«Si tramanda. Ho conosciuto anche cinesi bravissimi che fanno cose egregie sul nostro territorio».
Lei saprebbe confezionare un abito?
«Intende dire “disegnarlo”? Certo».
Intendevo cucirlo, dopo aver tagliato la stoffa.
«Ehm, io so attaccare i bottoni. Quindi sono in grado di confezionare un bel made in Italy, eheh».
Qualcuno le ha mai proposto di produrre all’estero e a poco prezzo i suoi abiti e i suoi accessori?
«Certo. Ho sempre rifiutato. Ma so che ci sono dei falsi in circolazione fatti all’estero con sopra la mia etichetta. Ed è un problema ulteriore rispetto al finto made in Italy».
C’è chi sostiene che avere imitazioni del proprio prodotto in circolazione sia un vantaggio. Il marchio circola: una specie di pubblicità gratuita.
«Al massimo può essere una piccola gratificazione. Ma un vantaggio di sicuro no. Quello che trovo scandaloso della “galassia falsi” è che su Internet si possano comprare utilizzando le carte di credito. Se permetti questi acquisti con strumenti legali, li incentivi. È una specie di associazione a delinquere».
Lei quando ha cominciato a occuparsi di abbigliamento?
«La mia famiglia era specializzata in abiti da donna. Io mi sono trasferito sull’uomo».
Aveva diciannove anni nel 1968.
«In quel periodo studiavo a Milano».
Era fricchettone?
«Scherza? La sera non potevo uscire di casa. Ero nel mirino dei gruppetti di ultrasinistra. Molti miei amici, invece, parcheggiavano la spider e raggiungevano il corteo».
Lei ha mai fatto politica?
«No. Ma ora ho promesso al mio sindaco di votarlo alle primarie».
Sta parlando di Matteo Renzi?
«È una speranza di cambiamento per le nuove generazioni».
Renzi veste i suoi abiti?
«Ha solo un mio smoking per le grandi occasioni».
Renzi le ha permesso di utilizzare gli Uffizi per una sfilata.
«Non lui. Tutto è stato fatto in maniera regolarissima in accordo con la Soprintendenza e nel rispetto del luogo che ci ospitava. E io ho sostenuto i costi per la nuova illuminazione della Loggia dei Lanzi, a Firenze».
Qual è la cosa che recentemente l’ha resa più fiero di essere italiano?
«Mi inorgoglii molto quando Nelson Mandela mi disse che il suo più grande rammarico era di non aver mai visitato l’Italia».
La cosa che l’ha fatta vergognare di più?
«La difficoltà che spesso hanno compratori e imprenditori extra EU nell’ottenere il visto per venire in Italia ad acquistare i nostri prodotti. A volte vengono addirittura taglieggiati».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Sposarmi trentasei anni fa con mia moglie Claudia. E coinvolgere i miei figli nell’azienda di famiglia».
L’errore più grande che ha fatto?
«Aver capito tardi l’importanza di ascoltare persone più sagge di me».
A cena col nemico?
«Le faccio il nome di un personaggio che molti considerano un nemico. Ma in realtà è un amico: Hosni Mubarak».
L’ex presidente egiziano costretto a dimettersi dopo la rivolta di Piazza Tahrir.
«Lo conosco da molti anni, vestiva i miei prodotti sartoriali».
Lei ha un clan di amici?
«Ne ho tanti. Di uno purtroppo ho appena riportato in Italia la salma. È morto in Africa».
Ha raccontato di usare l’Africa come luogo di ispirazione.
«Le mie collezioni le disegno quando sono in Tanzania».
La sua Africa.
«La prima volta ci sono stato alla fine degli anni Settanta, quando un amico mi invitò in Sudan per cacciare. L’Africa mi ha travolto. In quelle foreste ho avuto la sensazione di essere il primo essere umano a esplorare certi acquitrini. Ci vado almeno due volte l’anno. Ma lì non caccio quasi più. Ho già avuto a che fare con tutti gli animali che avevo sognato di cacciare».
E ora riserva le sue schioppettate alle bestiole nostrane?
«La caccia è anche un modo per stare con i miei figli. Non è facile da capire per chi non è cacciatore. La caccia non è sparare a un animale. Spesso si è appagati anche lasciando andar via un animale. Ha presente la scena del Cacciatore con De Niro che risparmia il cervo?».
Sì. È il suo film preferito?
«Uno dei preferiti».
La canzone?
«Il cielo in una stanza di Gino Paoli».
Il libro?
«Uno a caso tra quelli di Peter H. Capstick».
Chi è costui?
«Un viaggiatore e cacciatore morto in Sud Africa».
Sa quanto costa un pacco di pasta?
«Un euro e mezzo?».
Circa. Sa che cos’è Twitter?
«Ne sento parlare. Ma se guarda il mio telefono... è del 2003. Mi è sufficiente».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«No, qual è?».
Quello che descrive il Tricolore.
«Complimenti. Certo, ultimamente il Tricolore è tenuto un po’ nascosto, eh».