Laura Ballio, Sette 23/11/2012, 23 novembre 2012
IL FUTURO È UN DIRITTO PER I GIOVANI, MA È UN DOVERE PER TUTTI NOI
[Francesco De Gregori]
Un regalo dal Principe non è cosa che capiti tutti i giorni. Però capita: Francesco De Gregori arriva all’appuntamento sui suoi mocassini bianchi, con gli occhiali dai vetri trasparenti. E si vedono gli occhi. Sguardo dorato, ironico, gentile. Una rarità di solito occultata dietro lenti fumé, che non ha tolto nemmeno per le foto di queste pagine e della nostra copertina. Non ama essere fotografato (per la dannazione di chi da decenni si occupa della sua immagine e che ci ospita per questa intervista): distaccato e aristocratico, tratto da cui discende il “titolo” di Principe, giustificato anche da qualche goccia di nobile sangue piemontese. E col pubblico, in questi quarant’anni di carriera e di successo, da quando ha messo il primo piede sul palco (che neanche palco era, ma una saletta buia e fumosa) del Folkstudio di Roma, nel 1970, ha avuto rapporti non sempre calorosi, spesso – diciamo – “trattenuti”. Adesso, a 61 anni, dopo un successo che ha retto allo scorrere delle generazioni, con titoli che per molti sanno di proustiane madeleine, da Alice a Rimmel, da Buonanotte fiorellino a Generale, dalla Leva calcistica della classe ’68 alla Donna cannone, da Titanic a Banana Republic e Viva l’Italia, qualcosa è cambiato. Già quest’estate, nei concerti con Ambrogio Sparagna e la sua Orchestra popolare, era incredibile vederlo travolto dal ritmo delle tarante invitare alla partecipazione la gente nel parterre. Così non l’avevamo visto mai: «E non mi ci ero visto mai manco io, così». Sorride e fuma molto, le vecchie sigarette, le clope francesi senza filtro di quando s’avevano vent’anni. «Con Ambrogio è tutto facile, lui è un gran trascinatore. Ma è vero, il mio rapporto con il pubblico e con il mio lavoro è cambiato. È diventato più leggero, più semplice. Mi sono tolto dalle spalle il peso di questa incompatibilità tra chi sono sul palco e chi sono sotto il palco. Prima la vivevo con ansia, quasi con drammaticità. Non so cos’è successo. Magari l’età, la quantità di concerti che ho fatto…».
O la sicurezza, che agli esordi magari non era sufficiente e la rendeva un po’ ringhioso?
«No, quella l’ho avuta sempre. Anche quando ero impacciato, o timido, o un po’ ringhioso come dice lei, avevo sempre una grande sicurezza. Oddìo, pare brutto dirlo così. Ma uno che sale sul palcoscenico a 20 anni e praticamente non scende più lo fa perché è sicuro di quello che fa».
Però nel suo cd appena uscito, Sulla strada, in Guarda che non sono io, lei parla con un fan e sembra ritornato il “vecchio” De Gregori…
«Questo è un disco pieno di verità, e questa canzone è una delle più dirette. Non so se è un pezzo buono o cattivo nei confronti dei miei fan. È buono verso me stesso, perché rivendica la mia assoluta indipendenza dalla mia immagine pubblica. Racconto quello che succede a tutti noi che facciamo questo mestiere. Uno mi ferma per strada mentre sto facendo la spesa e mi inchioda a parlarmi di Alice o di Buonanotte fiorellino: io non è che non lo rispetti o non capisca, però la cosa che mi viene veramente da dirgli è “guarda che dietro a questa canzone hai immaginato una persona e delle cose che sono diverse. Io sono un uomo come te, sto facendo la spesa, famme anda’ a casa che è tardi…”. Insomma, dico la verità».
E la dice pure quando ridiventa il “nuovo” De Gregori e in Falso movimento, canta «stasera sono un libro aperto, mi puoi leggere fino a tardi»?
«Vuol dire “adesso sono qui e mi puoi guardare attraverso. Oggi è così, poi domani magari… chiudo il libro!”. Questo vale per un amore, come per un amico».
Un amico come Lucio Dalla, per esempio. Quello con cui ha camminato per decenni sulla strada della musica: il primo singolo insieme nel ’78, Ma come fanno i marinai, poi il boom con i concerti Banana Republic dell’estate del ’79 (più disco e film), fino al ritorno sulle scene nel 2010 con il Work in Progress Tour...
«Sì, io e Dalla abbiamo fatto una cosa che credo sia abbastanza rara nella biografia di altri musicisti. Per due volte, a distanza di più di trent’anni, abbiamo scelto di lavorare insieme, di scrivere canzoni insieme e di dividere il palcoscenico in una tournée che è stata lunga e fortunata. Questo credo sia possibile solo se c’è una forte amicizia musicale, oltreché umana, ma di quella umana non parlo, ché riguarda il privato. Sono orgoglioso di aver condiviso con Dalla due momenti di grande successo della sua vita di grande musicista, così come lui era orgoglioso di averli condivisi con me: c’era un sentimento di ammirazione reciproca tra di noi, anche se è difficile concepire due persone artisticamente così diverse».
Quanto le manca?
«La morte di Lucio fa parte della vita. Mi dispiace, ne sento la mancanza, però mi piace ricordarlo da vivo e non faccio uno sforzo. Non sono capace di pensare a lui che in termini di assoluta vitalità. Lucio ha avuto la carriera più lunga e luminosa di tutti noi. Veniva dal jazz, aveva suonato con Chat Baker. E aveva quasi spinto Pupi Avati a diventare un assassino: anche Avati suonava il clarinetto, ma davanti alla bravura di Dalla ebbe un tale tracollo di invidia da minacciare di buttar giù l’amico dalla Sagrada Familia, a Barcellona. Lo raccontava sempre, Lucio – che era grande inventore di bugie – ma la storia l’ho sentita anche da Pupi, quindi dev’essere vera».
Sulla strada è un titolo letterario, fotocopia di quello del romanzo di Kerouac…
«Anche se ai tempi era una lettura comandata, Kerouac non l’avevo mai letto».
Ma come, alla fine degli Anni 70 raccontava di leggere Gramsci, Céline e Kafka, e non aveva mai letto On the Road?
«Intanto Gramsci non l’ho mai letto. L’avrò detto per sembrare molto intellettuale, o l’ha aggiunto il giornalista. Céline sì, lo leggevo. E l’altro chi era?».
Kafka…
«Sì, Kafka sì, l’ho letto».
Torniamo a Kerouac.
«Di On the Road forse avevo sfogliato le prime pagine, mi ero scocciato e l’avevo mollato lì. Mi è ricapitato per le mani a giugno dell’anno scorso, ma non c’entra niente col disco, non mi ha dato ispirazioni. Solo una coincidenza, ma una lettura importantissima. A 60 anni levi da un libro tutto l’aspetto generazionale e trasgressivo, e vivi la lettura come la ricerca della verità. È un viaggio e il viaggio è sempre la ricerca di un punto d’approdo, che può essere quella di un padre sparito quando eri piccolo, o la ricerca di te stesso attraverso i chilometri che fai».
Sì, ma il titolo del disco?
«Il titolo non veniva, non c’era. Ho pensato a Sulla strada, ma subito mi sono chiesto se avrei potuto usare un titolo uguale a uno che già esisteva. Mi sono detto di sì. Anche perché sulla strada ci siamo proprio tutti».
Lei ci sta dai tempi del Folkstudio: chissà quante ne ha viste…
«Di tutti i colori, come capita a uno che fa il mio mestiere. Se fossi stato un maestro di scuola forse sarei stato meno fisicamente sulla strada e avrei avuto una differente visione del mondo. Ma ognuno di noi, in quarant’anni di vita, vede tutto quello che gli accade intorno, conosce gente e la dimentica, litiga e fa la pace, fa l’amore e si lascia. È così per tutti. Io poi scrivo e il materiale che accumulo prende forma di canzoni».
Nei brani del nuovo cd canta l’arrivo del 900 in Belle Epoque, poi La guerra e persino “il privato è politico” in Omero al Cantagiro…
«Il 900 è in tutti i sensi il mio secolo, quello che mi ha formato, l’ho spaccato a metà nascendo nel ’51. È un secolo controverso il XX, chi lo ha definito breve, chi un secolo mostruoso, chi invece come Giampiero Mughini nel suo ultimo libro (Addio gran secolo dei nostri vent’anni, Bompiani, ndr) lo vede come un periodo che ha prodotto molta arte. Certo ha portato tante novità, tanto benessere. In Belle Epoque, però, io gli do più un senso negativo, lo vedo come un secolo che ha generato guerre mondiali, totalitarismi, forse anche la perdita di quell’umanesimo che rivendico nella canzone che precede questa, Passo d’uomo. Perciò, mi sono inventato la figura di un sergente, un militare, una figura che a quei tempi aveva parecchio successo, e che festeggia il passaggio dal 1899 al 900 con una passeggiata in un delirio erotico e forse anche alcolico, perde completamente la cognizione di sé, e si avvia a casaccio verso il futuro. C’è dentro un pezzetto di vita di Dino Campana, grande poeta e scrittore: l’elettricità, le candeline elettriche, la vita che passa come un filo di rame, sono richiami alla sua dolorosa vita».
Nel ’78 Generale, oggi il tenente, comunque La guerra. Anche se raccontata da chi, come lei, fa parte della prima generazione di italiani che non ha vissuto direttamente un conflitto.
«Su questo potrei anche non essere d’accordo. Io non ho vissuto le guerre in cui sono stati coinvolti i miei genitori, che me le raccontavano con angoscia, paura e ricordi strazianti, però dire che noi non conosciamo la guerra, è un passaggio troppo semplice. Siamo circondati da guerre, l’eco arriva nelle nostre case, non le viviamo in prima persona ma ne subiamo le conseguenze. È un periodo di disagio planetario. Nessuno di noi è in salvo. Nessuno può avere la certezza che tra un anno la guerra non sia un po’ più vicina. Della canzone, invece, direi che contiene due guerre e una certa ambiguità: c’è la guerra degli incisi, con un coro di guerrieri sconfitti, ma che comunque tornano, e c’è la guerra delle strofe, quella di un soldato sperso nelle campagne, che si imbatte in una donna abbandonata dal marito anche lui andato a combattere. Diventerà un incontro sentimentale: “occhi neri di carbone sono pronti per l’agguato” e il soldato che ha scampato la guerra vera rimarrà vittima della guerra amorosa. “C’è una sposa disarmata il soldato non ha scampo”».
Visto che siamo in tema, cos’ha di diverso l’amore a sessant’anni?
«Cambia tutto, cambierà anche l’amore. Non la potenza del sentimento. Anzi, non direi che l’amore sia proprio la cosa che cambia di più tra i 20 e i 60 anni. Forse è quella che cambia meno. In Showtime, semplice quadro d’amore forse non corrisposto, c’è un verso che mi piace molto, “vedo le cose passare, non chiedo niente di più”: non c’è l’ansia di conquista, né la paura della sconfitta amorosa. È un amore pacificato. Forse l’amore maturo è così».
Torniamo al “privato e politico”, buttato lì in una canzone su un cantante un po’ sfigato che va al Cantagiro…
«Quando avevamo 20-30 anni ci si nutriva dello slogan “il privato è politico e il politico è privato”, adesso mi è venuto di farlo scivolare in una canzone. D’altronde nei miei testi privato e politico hanno sempre convissuto. È così fin dalla Divina Commedia, non è che voglia paragonarmi a Dante, ma in tutte le opere artistiche la dimensione privata di chi elabora il materiale poetico convive con uno sguardo sulla società, quindi politico».
Quanto sono cambiate le parole, la lingua italiana, da quando ha cominciato a scrivere canzoni?
«Fabrizio Gifuni diceva in un’intervista che, leggendo Il pasticciaccio brutto di via Merulana di Gadda, libro strepitoso e pieno di parole, aveva notato quanto si fosse impoverito il nostro vocabolario. Credo che abbia ragione e questo dipenda anche dalla velocità alla quale ormai si vive».
E il rapporto delle persone con la musica come è cambiato secondo lei?
«Negli ultimi 10/15 anni c’è stata una grande trasformazione del modo di produrre musica. La rete ha cambiato tutto e i musicisti ora si trovano davanti a scelte che prima non erano pensabili. La discografia, produrre un cd, venderlo, fare una tournée, tutto è diverso. Il talento, però, credo che abbia le stesse possibilità che aveva 40 o 100 anni fa di esprimersi e di promuoversi».
Ma nella vita della gente c’è più musica, oggi, con le nuove tecnologie?
«Sì, se ne ascolta di più, ma involontariamente. E anche chi lo fa per scelta lo fa in modo più casuale. Una volta si sceglieva il disco da comprare, si andava nel negozio, ci si metteva in fila, e quando si appoggiava il vinile sul giradischi lo si faceva con una religiosità che oggi mi è difficile immaginare. Non rimpiango quei tempi, però. I miei tempi sono questi e va benissimo così. Poi, non credo che la tecnologia cambierà davvero il mondo della musica o della letteratura. E più che tanto nemmeno mi riguarda. Il mio mestiere è scrivere canzoni, inciderle, salire sul palco. Com’è fatto il microfono in cui canto non l’ho mai saputo, non ho mai guardato dentro un amplificatore».
La settimana scorsa è andato al Premio Tenco, a Sanremo, con suo fratello, che si fa chiamare con il cognome di vostra madre, Luigi Grechi. Anche lui ha un disco appena uscito, Angeli&Fantasmi. Ma quant’è difficile per un musicista essere il fratello di De Gregori?
«Lo deve chiedere a Luigi. Dal mio punto di vista mi sembra che non lo sia affatto. Lui ha una storia musicale molto precisa, fa quello che vuole e non ha revanche nei confronti di un certo tipo di successo, anzi. Essendo più vecchio di me, anche se non si vede, ha cominciato per primo a suonare la chitarra ed è stato lui che mi ha portato al Folkstudio. È sempre il primo a sentire i miei dischi e quello di cui ascolto più volentieri i consigli. E da sempre è riconosciuto che il musicista della famiglia è lui».
Sarà così, ma lei nel ’79 ha scritto Viva l’Italia che, nella prima come nella seconda Repubblica, è diventato ed è il simbolo del patriottismo di sinistra. Adesso la riscriverebbe?
«No, perché l’ho gia scritta. Come non riscriverei Buonanotte fiorellino. Sono orgoglioso di averle composte, le canto nei concerti, ma non le rifarei. Le canzoni vanno per conto loro».
E questa Italia di oggi come le pare?
«Mmmmm. Parlare in questo momento dell’Italia è parlare di una crisi che non è soltanto nostra. Il Paese è in sofferenza, molte persone sono spaesate, e io sono tra queste. Non vedo le cose dall’alto o dal fuori, io ci sto dentro e vivo come tanti un momento di perdita di identità, di autostima».
Secondo lei «il futuro è un dovere» anche per il nostro Paese, come lo è per La Ragazza del ’95, che lei canta nel nuovo cd?
«Il futuro è un dovere per tutti. Vale per i giovani ma pure per noi, che non siamo mica da buttar via. La consapevolezza dei propri doveri potrebbe aiutare il Paese a uscire più in fretta da questa crisi planetaria, che non è solo finanziaria ed economica, ma soprattutto di valori, morali e intellettuali».
Ma lei, sessantenne in piena attività, come vede quest’ondata di rottamazione?
«Ogni età ha il suo valore, la giovinezza ha lo splendore, la bellezza, la vivacità intellettuale. Per i matematici è fondamentale, pare che tutte le grandi teorie siano state elaborate da studiosi che non avevano ancora 30 anni. Ma non è detto che sia così per ogni professione. Sennò Picasso a 30 anni si sarebbe dovuto suicidare».
Ma per la politica vale?
«Lei mi vuole portare a parlare di politica, ma non ci riuscirà».
Messaggio ricevuto. Passiamo oltre: cosa sta leggendo in questo momento?
«Be’, ho ancora da leggere Gramsci, no?».
E intanto?
«Leggo un po’ di tutto, a pezzi e bocconi, non sempre finisco i libri. Ne compro moltissimi, la maggior parte non mi piacciono. Spesso rileggo cose che invece ho amato. Come faccio coi film: ieri pomeriggio ho visto Il settimo sigillo di Bergman per la quinta volta. Molto meglio dell’ultimo film hollywoodiano».
E i libri che rilegge?
«Sto rileggendo Conrad. Mi sono sempre piaciute le storie di mare. Così è nato il mio Titanic, dalla lettura del poema in 33 canti La fine del Titanic, di Enzensberger, che trovai in libreria nell’81. A volte è imprevedibile quello che un libro fa dentro di te. Poi invece capita che leggi una critica sul giornale, vedi una fascetta invitante, compri il libro e scopri la bufala. Per i dischi è diverso, ormai. Tra un paio di mesi il mio cd si sentirà a destra e a manca, si potrà scaricare dalla rete, sapendo già che piace».
E questo lo reputa un danno?
«Lo è sicuramente per tutti quelli che producono la musica: se il pane venisse regalato sarebbe un danno per i fornai, non è detto però che il pane sia più cattivo se te lo regalano. A me tutto sommato non dà fastidio. Ho sempre scritto le canzoni per farle sentire, non per venderle. Poi se si vendono tanto meglio. L’urgenza che ho, in questo disco e in tutti gli altri che ho fatto, è che la gente lo senta. Se paga per sentirlo, è meglio, ma è meglio in un’altra stanza rispetto a quella in cui io sono contento che la gente lo ascolti».
Lei ha sempre detto che dei soldi non le importava granché, che più guadagnava più tasse doveva pagare…
«Be’, quello lo fanno tutti».
Mica tanto…
«Io lo faccio e tanti fanno come me. Certo, i soldi risolvono molti problemi. Ma non mi hanno mai cambiato la vita».
Non per soldi, ma con quale obiettivo ha scelto di fare il cantautore?
«Quello che fai non è sempre frutto della tua scelta. È anche il caso. Mi è capitato questo e non mi lamento».
Non può essere solo un caso, scusi…
«Ho scelto quando ho capito che la musica che facevo interessava la gente, ed è diventata il mio mestiere. Uno che vuole diventare magistrato fa il concorso, sceglie. Io sono stato scelto. Dalla gente, dal pubblico. Non ho mai faticato molto per fare quello che faccio, non ho mai lottato per essere quello che sono».
Laura Ballio