VARIE 22/11/2012, 22 novembre 2012
APPUNTI PER GAZZETTA - IL CONTRATTO DI PRODUTTIVITA’
CORRIERE.IT
Firmato l’accordo tra governo e parti sociali sulla produttività. La Cgil non ha cambiato posizione e ha deciso di non firmare. Mario Monti ha ricordato che «è un passo importante per il rilancio delle imprese e la tutela dei lavoratori». Questo è «un testo articolato, valido e innovativo. Un passo importante per il rilancio dell’economia, la tutela dei lavoratori e il benessere sociale». Il premier ha poi auspicato che «la Cgil si unisca alla sottoscrizione del documento quando lo riterrà opportuno nell’interesse dei lavoratori e del Paese». Ma per Susanna Camusso «l’accordo è deludente. E il punto più critico del documento costruito dalle imprese è che si determina una riduzione dei salari reali dei lavoratori». L’intesa sulla produttività, aggiunge Camusso, «è coerente con la politica del governo che scarica sui lavoratori i costi e le scelte per uscire dalla crisi. Si è persa un’occasione». E ancora: «Se dovessi definire il clima di questa sera la parola che mi viene in mente è imbarazzo», ha concluso il segretario della Cgil.
LE RISORSE- Monti ha confermato che per il 2013 e 2014 sono disponibili 1,6 miliardi di euro per gli accordi di produttività. Risorse che potranno essere aumentate fino a 2,1 miliardi «per effetto degli emendamenti approvati alla Camera». In una nota Palazzo Chigi, poi ha sottolineato: «Il governo ritiene che sussistano le condizioni per confermare l’impegno di risorse destinato alla riduzione del cuneo fiscale del salario di produttività e per procedere, nell’ambito della legislazione vigente e delle risorse disponibili, alla conseguente implementazione degli atti normativi necessari a definire i criteri di operatività dei meccanismi di defiscalizzazione necessari a sostenere in una logica di incentivazione della contrattazione di secondo livello, i salari e la produttività».
SQUINZI - Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha espresso rammarico che la Cgil non l’abbia firmato. L’accordo sulla produttività può essere un «elemento nuovo nelle relazioni industriali. L’inizio nuova fase di sviluppo e occupazione». Soddisfazione invece è stata espressa dal numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni. Secondo Angeletti della Uil, l’accordo è utile per «uscire dalla trappola nella quale siamo caduti dagli anni Novanta di bassa produttività e bassi salari» e dovrebbe essere d’aiuto per l’aumento delle retribuzioni. Sulla stessa linea il nuero uno dell’Ugl, Giovanni Centrella, secondo cui «l’intesa porterà più posti di lavoro e salari più alti».
DARIO DI VICO
Attorno alla decisione di firmare o meno l’intesa sulla produttività raggiunta dalle parti sociali con il governo la Cgil si è via via incartata.
La verità, infatti, è che questo nuovo accordo separato poteva essere tranquillamente evitato senza particolari turbamenti o abiure (e sono in diversi nella confederazione a pensarla così). Invece Susanna Camusso ha adottato una tattica oscillante: nei giorni del rush finale prima ha fatto sapere orgogliosamente che non avrebbe firmato, poi invece è sembrata voler guadagnar tempo sostenendo che il testo era sbagliato ma si poteva correggere. L’eterno vorrei-ma-non-posso che affligge i numeri uno di corso Italia. Francamente con la cultura della contrattazione che la Cgil può vantare e con la presenza che ha nei luoghi di lavoro avrebbe potuto giocare un ruolo ben più incisivo, invece è prevalso lo spirito minoritario e di deresponsabilizzazione. Lo stesso che aveva portato la dirigenza in un primo tempo a sconfessare l’operato dei chimici che avevano siglato il contratto nazionale, salvo poi rivedere il giudizio a babbo morto.
La tattica adottata da Camusso è stata interpretata all’esterno della Cgil e sulla stampa come una concessione alla Fiom e addirittura come un segnale di ulteriore spostamento a sinistra degli equilibri interni. La realtà è più complessa e forse più preoccupante. L’ultimo direttivo della confederazione ha messo in evidenza, infatti, un malessere profondo del gruppo dirigente che sente di non avere in mano una proposta forte mentre tutti gli altri attori della partita mostrano maggiori sicurezze e motivazioni. La Cisl di Raffaele Bonanni, pur scontando un dissenso interno, si è messa alla testa del movimento per la Terza Repubblica e sostiene la necessità di una lista Monti. La Fiom è granitica e in qualche maniera si sente rafforzata dal ruolo che Nichi Vendola gioca nella sinistra e persino dall’esistenza di un blocco elettorale grillino che vale tra il 15 e il 20%. Il Pd, che solo qualche tempo fa nel confronto con la Cgil sembrava il vaso di coccio, sta dimostrando con le primarie di poter mettere in campo una riserva di energie che non era scontato avesse.
La Cgil che ha una montagna di iscritti e non soffre di problemi finanziari è invece nell’angolo e sconta giocoforza una riduzione di protagonismo. Perché potrà essere anche vero che la trattativa sulla produttività ha cambiato corso quando si è saldato un asse filogovernativo Passera-Bonanni, ma Camusso aveva puntato tutte le carte su una inedita «alleanza degli scettici» con la Confindustria di Giorgio Squinzi illudendosi che avrebbe retto fino alla fine. Non è stato così e la Cgil si è ritrovata sola con i suoi dubbi e le sue ansie. Visto il risultato è facile che dopo l’accordo separato finisca per affermarsi l’idea politicista secondo la quale per sostenere le sue battaglie la confederazione ha bisogno di un governo amico e dunque è meglio aspettare a braccia conserte il responso delle urne e Pier Luigi Bersani a palazzo Chigi.
Ma la drammaticità della crisi e un (ipotizzabile) ulteriore peggioramento del dato della disoccupazione consentiranno alla Cgil di restare sull’Aventino fino alla fatidica primavera del 2013? Per evitare l’impasse e non vivere di inutili scioperi solitari Camusso ha iniziato da qualche settimana a costruire con i suoi un’ambiziosa proposta di Piano del lavoro (alla Di Vittorio), però i tempi dell’elaborazione programmatica e quelli della crisi reale sembrano terribilmente sfasati. Tanto da dar ragione a quanti - i più saggi - sostenevano che sarebbe stato meglio firmare l’accordo sulla produttività ed evitare così di farsi isolare dall’onnipresente Bonanni.
DARIO DI VICO
PASSERA
«Siamo molto dispiaciuti della mancata firma della Cgil, si tratta di motivazioni che oggettivamente non tengono». Il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera non nasconde la sua amarezza per la mancata adesione della Cgil all’accordo sulla produttività. E assicura: «Non c’è nessun asse politico» con Cisl e Uil.
LA RAPPRESENTANZA- In ogni caso l’accord «è fatto per favorire le aziende e i lavoratori delle aziende. È un segnale forte che alcuni blocchi del passato vengono meno. Saranno gli accordi aziendali che regolereranno e la Cgil sarà attore sul campo. È importante prendere atto che c’è la voglia di rendere aziende e lavoratori in grado di competere di più». Per questo «abbiamo lavorato tutti insieme e cercato di coinvolgere il maggior numero di rappresentanze dei lavoratori fino all’ultimo ho cercato di spiegare alla Cgil e alla signora Camusso quanto importante questo accordo poteva essere». Il ministro auspica che ci sia una continuità con il prossimo governo. «Il lavoro iniziato deve essere continuato e non messo in discussione».
DAL CORRIERE DI STAMATTINA
«Siamo molto dispiaciuti della mancata firma della Cgil, si tratta di motivazioni che oggettivamente non tengono». Il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera non nasconde la sua amarezza per la mancata adesione della Cgil all’accordo sulla produttività. E assicura: «Non c’è nessun asse politico» con Cisl e Uil.
LA RAPPRESENTANZA- In ogni caso l’accordo «è fatto per favorire le aziende e i lavoratori delle aziende. È un segnale forte che alcuni blocchi del passato vengono meno. Saranno gli accordi aziendali che regolereranno e la Cgil sarà attore sul campo. È importante prendere atto che c’è la voglia di rendere aziende e lavoratori in grado di competere di più». Per questo «abbiamo lavorato tutti insieme e cercato di coinvolgere il maggior numero di rappresentanze dei lavoratori fino all’ultimo ho cercato di spiegare alla Cgil e alla signora Camusso quanto importante questo accordo poteva essere». Il ministro auspica che ci sia una continuità con il prossimo governo. «Il lavoro iniziato deve essere continuato e non messo in discussione».
ROBERTO BAGNOLI SUL CORRIERE DI STAMATTINA
ROMA — Cambiano i contratti, nelle retribuzioni ci sarà meno automatismo e più aumenti legati alle performance aziendali. Più flessibilità negli orari e sarà persino possibile, d’intesa col sindacato, demansionare un dipendente pagandolo meno. La rivoluzione del mondo del lavoro, per tentare di riacciuffare la produttività perduta, arriva con il timbro del governo dopo un’ora di confronto con le parti sociali. La Cgil ribadisce la sua contrarietà e resta fuori dall’intesa. «Una scelta sbagliata», ha detto il segretario Susanna Camusso. «Ci rallegriamo per il grande lavoro da voi condotto in questi due mesi, un eccellente e duro lavoro»: così il presidente del Consiglio Mario Monti ha commentato l’accordo. «Immagino non sia stato facile — ha proseguito il premier rivolgendosi ai firmatari —, è un passo importante per il rilancio delle imprese e la tutela dei lavoratori». Per quanto riguarda il no della Cgil Monti, nel corso della conferenza stampa alla quale la Camusso non ha voluto partecipare, ha precisato di augurarsi una sua adesione. «Non ci sono scadenze anche se i tempi devono essere brevi — ha precisato —, comunque la validità c’è pur senza l’adesione della Cgil che ci sarebbe piaciuto ci fosse». Un passaggio questo rafforzato più volte per dimostrare la volontà dell’esecutivo di tenere dentro fino all’ultimo anche il maggior sindacato italiano, anche se il governo ha avuto la sensazione che la Cgil fosse arrivata all’incontro con la decisione di dire no già presa. E confermata poi da Camusso: «Non ci saranno adesioni a posteriori». Il ministro dello Sviluppo Corrado Passera ha giudicato «concreto» l’accordo e dunque ha confermato le risorse stanziate dal governo di 2,1 miliardi in tre anni per sostenere i salari di produttività. «Ma non sarà una defiscalizzazione a pioggia — ha aggiunto —, verranno premiati solo gli accordi in grado di generare davvero maggiore produttività». Il ministro del Lavoro Elsa Fornero ha annunciato per settimana prossima un provvedimento per la partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa.
Alle 19 di ieri sera le nove associazioni (cinque per le imprese, quattro per i sindacati) si sono presentate a Palazzo Chigi. Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha letto la sintesi delle oltre nove cartelle. Subito dopo è toccato alla Camusso spiegare la contrarietà della sua organizzazione (successivamente meglio argomentata in una conferenza stampa). Ne è nato un vero botta e risposta con il premier. La Camusso ha sostenuto che l’intesa alla fine riguarda solo una platea di due milioni di lavoratori lasciandone fuori altri 16 per i quali ci sarà un «abbassamento dei salari reali». «Sarebbe stato meglio detassare le tredicesime per rilanciare i consumi». «Ma questo non è possibile per le condizioni della finanza pubblica», avrebbe risposto a caldo Mario Monti. «Spero — avrebbe affermato Monti — che il prossimo governo sia meno raggrinzito». L’accordo, secondo Camusso, «accelera la recessione».
Lo scambio di opinioni è continuato anche quando Monti ha invitato la Camusso a partecipare alla conferenza stampa in modo da poter esprimere la sua posizione in modo argomentato. E cioè spiegare perché la Cgil ritiene che il governo abbia indirizzato la trattativa in un certo modo. Il leader della Cgil ha però declinato rifiutandosi di stare dentro lo «schemino» del governo. Un duello verbale comunque molto soft ed estremamente cortese anche se le due «parti» hanno dimostrato una reciproca risolutezza. Al punto che la Camusso ha deciso di abbandonare la Sala Verde quando il Professore era ancora seduto.
Secondo le attese di Palazzo Chigi l’accordo sarebbe dovuto arrivare entro il 18 di ottobre per consentire a Monti di presentarlo al vertice di Bruxelles. Così non è stato ma alla fine l’obiettivo è stato raggiunto. Ieri i commenti a caldo dei protagonisti che hanno firmato sono stati tutti molto positivi. Raffaele Bonanni (Cisl), Luigi Angeletti (Uil), Giovanni Centrella (Ugl) hanno plaudito a una intesa storica per rilanciare occupazione e competitività delle imprese. Per il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, «l’accordo sulla produttività va nella direzione giusta, siamo dispiaciuti che non tutti abbiano deciso di sottoscriverlo». Il presidente della Lega delle cooperative Luigi Marino ha sottolineato che «questo Paese deve cominciare a procedere per balzi e non per passettini, va superata l’idea che ci siano tabù inviolabili».
Roberto Bagnoli
• Cuneo fiscale 2,1 miliardi in meno Sgravi sui redditi fino a 40 mila euro
ROMA — La parte centrale dell’accordo tra le parti sociali e con il governo fa riferimento al «tesoretto» di 2 miliardi e 150 milioni di euro nel triennio (stabilito nella legge di Stabilità in via di approvazione) per agevolare il salario di secondo livello. Questa cifra servirà per alleggerire la busta paga dei lavoratori dipendenti in quella zona variabile e legata, almeno in teoria, all’aumento effettivo di produttività. Nell’accordo le parti sociali hanno chiesto espressamente al governo e al Parlamento di rendere stabili e certe le misure previste dalle disposizioni di legge (quelle varate dall’esecutivo Berlusconi) per applicare, sui redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro annui lordi, la detassazione del salario di produttività «attraverso la determinazione di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali, pari al 10%». Inoltre, sempre imprese e sindacati hanno invitato il governo ad applicare la legge 247 del 2007 che prevede lo sgravio contributivo per incentivare la contrattazione collettiva di secondo livello fino al limite del 5% della retribuzione contrattuale percepita. Nella realtà, il limite alla defiscalizzazione era stato fissato a 6 mila euro l’anno nel 2011 poi ridotti a 2.500 nel 2012. Ora bisogna vedere come il governo, mediante l’annunciato decreto da emanare entro il 15 di gennaio, ha intenzione di regolare tutta questa materia. Monti aveva chiesto alle parti di eliminare ogni automatismo negli aumenti salariali come prima condizione per concedere gli sgravi. Nell’accordo vi è un generale riferimento al fatto che la dinamica retributiva, pur nell’obiettivo di tutelare il potere d’acquisto, sia «coerente con le tendenze generali dell’economia, del mercato del lavoro, del raffronto internazionale e gli andamenti di settore», tenga cioè conto di eventuali situazioni di crisi.
R. Ba.
• Doppio livello Salario aziendale Intese territoriali per i piccoli
ROMA — Verrà depotenziato il contratto nazionale e verranno rafforzati quelli di secondo livello. Le parti sociali potranno scegliere di quale secondo livello discutere: o quello territoriale, più congeniale alle piccole e medie imprese dove non esiste il sindacato, o quello aziendale preferito dalle grandi. Per fare questo le parti hanno stabilito che il Contratto collettivo nazionale di lavoro dovrà perseguire la semplificazione normativa e «prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione delle materie e delle modalità che possono incidere positivamente sulla crescita della produttività, quali gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro».
Secondo quanto previsto a pagina 3 del patto i Contratti collettivi nazionali di lavoro «possono definire che una quota degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi a incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello, così da beneficiare anche di congrue e strutturali misure di detassazione e decontribuzione per il salario di produttività definito dallo stesso livello di contrattazione». In pratica una quota degli aumenti decisi col contratto nazionale potranno essere spostati sul secondo livello. Tale quota resterà parte integrante dei trattamenti economici comuni per tutti i lavoratori rientranti nel settore di applicazione dei contratti nazionali laddove non vi fosse o venisse meno la contrattazione decentrata. La contrattazione di secondo livello deve disciplinare, «valorizzando i demandi specifici della legge o della contrattazione collettiva interconfederale e nazionale», gli istituti che hanno come obiettivo quello di favorire la crescita della produttività aziendale.
R. Ba.
• Orari e ruoli Demansionamento possibile Ma non unilaterale
ROMA — L’accordo sulla produttività le ha messe in fondo, al punto 7. Ma sono le norme forse più chieste dalle imprese e più osteggiate dalla Cgil tanto che alla fine non ha firmato. E sono anche le norme che il ministro del Lavoro Elsa Fornero e quello dello Sviluppo Corrado Passera hanno indicato come fondamentali per l’accesso ai bonus fiscali e contributivi. Si tratta del demansionamento e della flessibilità degli orari. Sono due nuovi «istituti» contrattuali che potranno essere introdotti solo facendo ricorso alla contrattazione collettiva. Nel senso che l’imprenditore non potrà adottarli in modo unilaterale. Il primo, il demansionamento, potrebbe far sì, per esempio, che una azienda in crisi dirotti alcuni dipendenti — in deroga all’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori — su lavori inferiori alla loro qualifica (nel caso delle banche, quadri che vanno a fare gli sportellisti) con decurtazione dello stipendio. Fino a ora le imprese dovevano licenziare i dipendenti in esubero e riassumerli con una qualifica diversa. Nel testo si prevede che ci sarà «l’affidamento alla contrattazione collettiva rispetto alle tematiche relative all’equivalenza delle mansioni, alla integrazione delle competenze, presupposto necessario per consentire l’introduzione di modelli organizzativi più adatti a cogliere e promuovere la produttività». Così per quanto riguarda gli orari si prevede «la ridefinizione della loro distribuzione anche con modelli flessibili, in rapporto agli investimenti, all’innovazione tecnologica finalizzati al pieno utilizzo delle strutture produttive». Contrattazione collettiva anche per le «modalità attraverso cui rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, per facilitare l’attivazione di strumenti informatici ordinari, indispensabili per lo svolgimento delle attività lavorative». Leggi le telecamere in fabbrica e in ufficio. Su tutte queste materie ci saranno avvisi comuni delle parti sociali sulla base dei quali il governo potrà cambiare le norme di legge.
R. Ba.
• Rappresentanza A dicembre le regole e le sanzioni
ROMA — L’aumento di produttività non passa solo attraverso più soldi ma anche utilizzando regole migliori nella vita delle aziende. L’intesa tra imprese e sindacati prevede infatti capitoli cospicui per introdurre nuove norme per le rappresentanze sindacali in modo da garantire l’effettiva democrazia e il rispetto degli accordi raggiunti a maggioranza. Così come si prevede, riferendosi alla legge del giugno scorso (la numero 92), che il governo favorisca la partecipazione dei dipendenti agli utili e al capitale. Il segretario generale della Cgil Susanna Camusso con una lettera al Corriere della Sera aveva chiesto al governo di adottare un apposito decreto per dotare le parti di nuove leggi sulla rappresentanza, visto che da anni se ne discute senza essere mai arrivati a una intesa condivisa. L’idea della Camusso non è stata adottata né dal governo né dalle altre parti sociali ma nel testo si prevede chiaramente che, entro la fine dell’anno, l’intera materia dovrà essere disciplinata «con accordo e regolamento integrativo» in attuazione dei principi contenuti nel patto interconfederale del 28 giugno dell’anno scorso. «Le intese dovranno altresì — si legge — prevedere disposizioni efficaci per garantire, nel rispetto dei principi concordati nell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, l’effettività e l’esigibilità delle intese sottoscritte, il rispetto delle clausole di tregua sindacale, di prevenzione e risoluzione delle controversie collettive, le regole per prevenire i conflitti, non escludendo meccanismi sanzionatori in capo alle organizzazioni inadempienti». Nella prospettiva di valorizzare il coinvolgimento dei lavoratori alla vita delle imprese, l’accordo prevede anche di stimolare con una fiscalità di vantaggio le «forme di welfare contrattuale a partire dalla previdenza complementare». Secondo l’accordo del 28 giugno 2011 gli iscritti ai sindacati dovrebbero essere certificati e tutte le organizzazioni con almeno il 5% hanno diritto a contrattare.
R. Ba.
PEZZO DI TITO BOERI STAMATTINA SU REPUBBLICA
SONO passati quasi 20 anni dallo storico patto sociale del luglio 1993 che allontanò il nostro Paese dal baratro impedendo che gli effetti della svalutazione della lira sulla competitività delle nostre imprese venissero vanificati dall’aumento del costo del lavoro. n questi 20 anni la produttività del lavoro è aumentata di un modestissimo 0,1 per cento all’anno, l’inflazione è stata mediamente più alta di un punto e mezzo all’anno che nella media Euro e abbiamo così accumulato un divario crescente di competitività rispetto agli altri paesi, Germania in primis. Oggi siamo sprofondati in una nuova crisi, socialmente più pesante di quella di vent’anni fa anche perché dura ormai da 5 anni. Per tornare a crescere abbiamo disperatamente bisogno di un nuovo patto sociale: la spinta alla nostra economia non può che venire, in questo frangente, dalla domanda estera. Mai come oggi, crescita e internazionalizzazione sono due facce della stessa medaglia.
Purtroppo l’accordo firmato ieri sera a Palazzo Chigi ha ben poco in comune con quello del 1993. Innanzitutto si tratta di un accordo separato, dal quale rimane questa volta fuori il maggiore sindacato italiano. Ma il vero problema è che sembra il patto di un paese depresso, di una classe dirigente e di parti sociali senza idee. Servirà forse a salvarci la faccia, ad avere un documento da esibire in Europa. Ma non è certo questo il patto sociale di cui avremmo bisogno. È un bene che venga recepita l’intesa raggiunta nel luglio 2008 da sindacati e associazioni di categoria. Purtroppo è un recepimento tardivo e solo formale: per attrarre investitori dall’estero, per migliorare le nostre relazioni industriali, evitando casi come quelli della Fiom a Pomigliano, bisognerebbe al più presto approvare una legge sulle rappresentanze sindacali colmando un vuoto aperto dalla nostra Costituzione e approfondito dalle divisioni nel sindacato. Positivo anche il riconoscimento della necessità di spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello della singola azienda. Soprattutto in questa seconda recessione, iniziata nella seconda parte del 2011, assistiamo ad una crescente polarizzazione nella performance delle imprese: abbiamo quasi il 50% di aziende che vedono calare il loro fatturato di più del 10 per cento e un terzo di imprese (soprattutto quelle che esportano) che lo vedono crescere più del 10 per cento mentre solo in un’azienda su 10 il fattura rimanere costante. Questa sempre più stridente asimmetria nei comportamenti delle imprese rende le maglie della contrattazione nazionale troppo strette: alcune aziende hanno bisogno di cercare di contenere gli esuberi, riducendo gli orari di lavoro e abbassando i salari; altre possono invece permettersi di pagare retribuzioni più alte. Non c’è mai stato un aumento salariale che potesse andare bene per tutte le imprese italiane in un dato settore. Oggi questa taglia unica che dovrebbe andare bene per tutti c’è ancora meno che in passato. Ma nel documento non si va oltre le enunciazioni di principio, le stesse che hanno lasciato per lunghi anni milioni di lavoratori senza contratto. Da molto tempo si sostiene e si scrive che bisogna decentrare la contrattazione in Italia ma non lo si fa: perché dovrebbe essere questa la volta buona?
Negli innumerevoli “auspicano”, “ritengono utile”, nell’“intendimento di convenire” del documento di ieri vengono anche tessute le lodi della partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Proporre questo in un momento di crisi equivale a una colossale presa in giro: i lavoratori che diventassero oggi azionisti della loro impresa aggiungerebbero al rischio di perdere il lavoro quello di vedere bruciati i risparmi di una vita.
Ma la cosa più discutibile del documento risiede nell’unica misura concreta prevista. Si tratta della defiscalizzazione della componente del salario legata ai premi di produttività. È una misura che esiste dal 2007 e che non ha portato ad alcun incremento della contrattazione cosiddetta di secondo livello, quello che dovrebbe legare salari e produttività. Addirittura la quota di imprese in cui si firmano contratti aziendali è diminuita. Al tempo stesso è una misura diventata sempre più costosa per le casse dello Stato tant’è che il Governo, impegnato nel raggiungere il pareggio di bilancio, l’aveva sospesa per il 2013. Il fatto è che si presta ad abusi perché permette a lavoratori e imprese di detassare quote del salario indipendentemente da qualsiasi incremento di produttività. Conviene ad entrambi pagare meno tasse, non certo a chi dovrà farlo anche per loro. Certo, gli abusi possono essere contenuti fissando limiti alla quota di salario che potrà essere detassata. L’accordo stabilisce questa soglia nel 5 per cento. Ma non è affatto chiaro se tale quota potrà crescere nel tempo, anno dopo anno. Delle due l’una: se si può al massimo detassare il 5 per cento del salario ogni anno, l’incentivo sarà comunque troppo basso per stimolare un incremento di produttività. Se invece la soglia si cumula nel tempo, si rischia di smantellare la base fiscale dell’Irpef. Pensiamo poi ai problemi per l’erario nel valutare componenti di salario soggette a regimi fiscali così diversi. Per farlo bisognerà sottrarre risorse amministrative che andrebbero oggi dedicate interamente al contrasto dell’evasione, possibilmente con l’incrocio di banche dati, anziché con misure propagandistiche come il Redditest.
LUISA GRION SU REPUBBLICA DI STAMATTINA
LUISA GRION
ROMA
— Accordo fatto, ma senza la Cgil. Alla fine, dopo mesi di lunga e faticosa trattativa, le parti sociali hanno firmato un’intesa sulla produttività, «sulle linee programmatiche» per farla crescere - l’Istat assicura che è praticamente ferma da venti anni - e sul come rilanciare la competitività del Paese. Ma nel lungo elenco di firme (Abi, Ania, Confindustria, Lega cooperative, Rete imprese Italia, Cisl, Uil e Ugl) non c’è il sindacato di Susanna Camusso. Il governo benedice il protocollo (il premier in realtà avrebbe voluto esibirlo in un vertice europeo già un mese fa) e ne condivide i principi. Il Parlamento, nella Legge di stabilità che ieri ha ottenuto il via libera alla Camera, ha messo sul piatto 2,1 miliardi di euro per il triennio 2013-15 destinati a detassare i salari di produttività, e il Senato potrebbe decidere di aggiungervi altri 250 milioni ora assegnati alle zone alluvionate. C’è dunque il testo (sette punti in dieci pagine) e ci sono le risorse: ma il documento chiamato a riscrive le regole della contrattazione, resta al centro di uno scontro importane confluito nell’ennesimo accordo
separato. L’intesa, infatti, assegna un crescente peso al «secondo livello» e alla flessibilità che gli accordi territoriali e aziendali possano introdurre su orari e mansioni in cambio di un aumento salariale.
Prospettiva che piace molto al governo e sulla quale si trovano d’accordo tutti i firmatari: dal leader di Confindustria Squinzi («è l’inizio di una nuova fase di sviluppo e di occupazione) ai segretari generale di Cisl Bonanni («servirà ad uscire dalle secche») e della Uil Angeletti («è utile per uscire dalla logica bassi salari-bassa produttività
»).
La mancata firma della Cgil resta comunque un problema, anche se il governo ne circoscrive i confini: il premier Monti precisa di «desiderarla molto » ma assicura che l’accordo è «completo, condiviso, autosufficiente » e «rappresenta un buon impiego del denaro pubblico » . La sigla della Camusso avrebbe un «notevole significato » visto che il suo sindacato è «rilevante, importante e di grande tradizione», ha ammesso il premier, ma non peserebbe comunque «dal punto di vista operativo».
Palazzo Chigi, in realtà, ci ha provato anche ieri sera a trovare la quadra e a incassare un documento da tutti condiviso: «C’è qualcosa che si può fare?» ha detto il ministro Fornero alla Cgil ad un certo punto della trattaativa. No, la questione «non va bene né nel merito, né nel metodo» ha ribadito la Camusso
che ha ancora una volta chiesto a Monti di «detassare le tredicesime» («Non ci sono soldi » ha risposto il premier).
Netta e dettagliata la spiegazione del «no» data dal sindacato. L’intesa sulla produttività, ha spiegato la Camusso «è coerente con la politica del governo
che scarica sui lavoratori i costi e le scelte per uscire dalla crisi. Si è persa un’occasione».
Di più: «Il documento non rappresenta una soluzione ai problemi» ed «è un altro intervento che accelera la recessione del Paese». Il punto più critico
è rappresentato dal fatto che le nuove regole sono destinate ad «abbassare i salari reali». «Il governo - ha affermato la Camusso - scarica sul lavoro i costi della crisi e le scelte per uscire dalla crisi abbassando i redditi da lavoro». Durante il vertice il clima a Palazzo Chigi, assicura la leader della Cgil, «era di evidente imbarazzo».
Visti i presupposti sarà difficile che ci possa essere un ripensamento. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, continua ad augurarselo: «L’accordo non esclude nessuno dalle trattative contrattuali » ha precisato. Il decreto ministeriale che seguirà all’accordo e che sarà messo a punto con le parti sociali, ha specificato, conterrà le modalità per accedere alla defiscalizzazione: «Non ci saranno distribuzione di risorse a pioggia».
ROBERTO MANIA SU REPUBBLICA DI STAMATTINA
ROBERTO MANIA
ROMA
— Un colpo al contratto nazionale. Questa volta, dopo essere stato per decenni la spina dorsale del sistema di relazioni industriali, il contratto nazionale rischia di essere relegato a un ruolo da comprimario. Il protagonista sarà il contratto aziendale e, nelle imprese di piccole dimensioni, quello territoriale. Questo perché gli aumenti retribuitivi dovranno essere il più possibile collegati all’andamento della produttività. E insieme se ne va in soffitta il sistema degli automatismi, che dalla scala mobile degli anni ‘70-‘80 all’indice Ipca (l’indice dei prezzi al consumo depurato dai prezzi dei prodotti petroliferi) dell’ultimo periodo ci hanno accompagnato fino ad oggi, passando per la lunga e controversa stagione della concertazione con il tasso di inflazione programmata.
SVOLTA E INCOGNITE
Si punta a girare pagina. Una svolta, ma con tante incognite. Prima tra tutte quella della Cgil. Come si potranno sottoscrivere i nuovi accordi se il sindacato più grande e più rappresentativo in tutti i settori non condivide le nuove regole del gioco? E le nuove regole saranno applicate subito o bisognerà aspettare la prossima tornata contrattuale, cioè tre anni, visto che l’attuale è già aperta?
Ma alla fine, se dovessero essere applicate le novità, il cambiamento ci sarà, eccome.
MINIMO CONTRATTUALE
Partiamo, allora, proprio dal contratto nazionale di ciascuna categoria. L’intesa dice che dovrà tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni, ma non c’è più alcun riferimento all’indice Ipca che dal 2009 (con l’accordo separato tra Confindustria, Cisl e Uil, ma non la Cgil) vincola gli aumenti. Nel nuovo protocollo c’è una formula molto più complessa, e certo meno stringente, secondo la quale la dinamica degli aumenti salariali dovrà essere «coerente con le tendenze generali dell’economia, del mercato del lavoro, del raffronto competitivo internazionale e gli andamenti specifici del settore». Saranno le parti a fissare i paletti, ciascuna categoria per sé. Molto dipenderà dai rapporti di forza.
Ma anche all’interno della medesima categoria i minimi retributivi potrebbero non essere uguali per tutti. L’accordo, infatti, prevede che una quota degli aumenti concordati a livello nazionale possa essere “spostata” a livello aziendale (o territoriale), collegandola alla produttività. Così facendo quell’aumento otterrebbe lo sconto fiscale (fino a 40 mila euro di reddito, si pagherà al posto dell’aliquota Irpef un’imposta secca del 10%). In questo modo cambieranno i minimi tra chi fa la contrattazione aziendale o territoriale (oggi riguarda un po’ meno del 30 per cento dei lavoratori) e chi ha solo il contratto nazionale.
ORARI E MANSIONI
E sempre all’interno delle aziende si potranno modificare, per via negoziale, gli orari di lavoro, la loro distribuzione, gli straordinari, le mansioni dei lavoratori e pure definire come utilizzare i nuovi strumenti tecnologici (telecamere o altro) per il
controllo della prestazione lavorativa.
LE MODIFICHE DI LEGGE
Questioni delicatissime che le parti - per quanto si intuisce punterebbero ad affrontare anche per superare i vincoli che oggi pone il Codice civile e lo stesso Statuto dei lavoratori. Sostanzialmente sembra riproporsi lo schema dell’“articolo 8” che l’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, introdusse, su richiesta della Fiat, per consentire ai contratti di lavoro di derogare alle disposizioni
di legge. Una volta trovato l’accordo, il legislatore dovrebbe intervenire a “sanare” la modifica. Ciò dovrebbe riguardare anche il demansionamento, oggi impossibile. Un lavoratore potrebbe vedersi ridotta la mansione e di conseguenza la retribuzione. È una richiesta che è venuta in particolare dal sistema delle banche alle prese con un processo di ristrutturazione per la gestione del quale non può più ricorrere ai prepensionamenti per effetto della legge Fornero.
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PEZZETTINI SU REPUBBLICA DI STAMATTINA
• I minimi salariali rischiano di saltare
Gli aumenti retributivi con i prossimi contratti nazionali potrebbero essere anche inferiori all’indice Ipca (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato a livello europeo ma depurato dei prezzi petroliferi) che dal 2009 viene sostanzialmente utilizzato per guidare la contrattazione nazionale. Una parte degli aumenti potrà essere collegata al raggiungimento in azienda di obiettivi di produttività. In questo modo potranno beneficiare degli sgravi fiscali, con l’imposta secca del 10% prevista dalla legge di Stabilità (2,1 miliardi lo stanziamento). Ma in questo modo i minimi della categoria potrebbero non essere più uguali per tutti
• Videocamere spia sul posto di lavoro
Arriva una nuova flessibilità.
Questa volta non più in entrata nel mercato del lavoro (o in uscita), ma all’interno della stessa prestazione lavorativa.
Le parti (imprese e sindacati) potranno definire nuovi orari ma anche cambiare le mansioni di un lavoratore e, di conseguenza, ridurgli la retribuzione. Attualmente è impossibile per i vincoli del Codice civile (l’articolo 2103). L’eventuale accordo tra le parti dovrebbe portare a un successivo intervento legislativo nella stessa direzione. Con lo stesso schema potrebbe essere superato il divieto di videosorveglianza sui lavoratori introdotto con lo Statuto dei lavoratori del 1970
• Rappresentatività con soglia del 5%
Entro la fine di quest’anno imprese e sindacati stabiliranno le modalità per eleggere i nuovi rappresentanti sindacali sulla base dei principi già concordati con la Confindustria il 28 giugno del 2011. La rappresentatività di ciascuna sigla sindacale sarà misurata attraverso un mix di criteri: da una parte i voti ottenuti tra i lavoratori per l’elezione delle Rsu, dall’altra il numero degli iscritti. Per poter essere ammessi al tavolo negoziale si dovrà superare la soglia del 5%. Proprio perché sicuramente rappresentativa, la Cgil aveva chiesto alla Confindustria di ammettere la Fiom alle trattative per il contratto dei metalmeccanici
• Parte la staffetta giovani-anziani
Si riapre il confronto sulla riforma del mercato del lavoro e sugli effetti sull’occupazione della legge Fornero sulle pensioni. L’idea, contenuta nel protocollo, è di favorire forme di “staffetta” tra lavoratori anziani e giovani. I primi, dato che è stata innalzata l’età pensionabile, potrebbero restare occupati con contratti part time e fare da tutor ai più giovani. Per non rischiare però di impoverire la futura pensione, sindacati e imprese, chiedono al governo «misure per garantire una adeguata e certa copertura contributiva».
Le parti sociali puntano anche (ma la Confindustria non è del tutto convinta) a introdurre un sistema di partecipazione fino all’azionariato dei lavoratori
PAOLO BARONI SULLA STAMPA DI STAMATTINA
«U n accordo separato non serve a nessuno», hanno ripetuto tutti sino all’ultimo minuto. E invece, anche se non conclamato, l’accordo sulla produttività è un accordo separato. Senza la Cgil. Il presidente del Consiglio Mario Monti non ha voluto drammatizzare la situazione ed anzi ha auspicato che ci possa essere «una evoluzione del pensiero» del sindacato guidato da Susanna Camusso.
Ma dopo settimane di trattativa a questo siamo: firmano tutte le imprese, firmano Cisl, Uil e Ugl, ma non la Cgil. Camusso attacca la «scelta politica» dell’esecutivo, parla di «strada sbagliata» perché in questo modo si rischia di abbassare i redditi da lavoro anziché aumentarli. Il premier invece si congratula per il «lavoro eccellente» fatto dalle parti sociali e dice che il documento sulla produttività è un «passo importante» per il rilancio delle imprese e la tutela dei lavoratori.
Detto questo c’è il rischio fondato che un accordo separato non serva davvero a nessuno. Non serve innanzitutto alla Cgil, perché in questo modo (ancora una volta) il sindacato guidato da Camusso finisce per autoemarginarsi ancora di più. Ma non serve nemmeno alle imprese e agli altri sindacati, che avrebbero dovuto tutti farsi maggiormente carico della questione, perchè l’esperienza degli anni passati insegna che un accordo che non ottiene l’avvallo della Cgil, che in termini di iscritti è il sindacato italiano più importante (anche se non in tutti i luoghi di lavoro è il più rappresentativo), farà certamente molta più fatica ad ingranare e a dare i risultati attesi.
Per Monti i 2,1 miliardi di euro messi a bilancio rappresentano «un buon impiego» di denaro pubblico. Ma è evidente a tutti che questi soldi, scavati comunque a fatica tra le voci della legge di stabilità e destinati a detassare i premi e gli aumenti di stipendio legati agli accordi sulla produttività, potrebbero restare inutilizzati nelle casse del Tesoro per lungo tempo. Cosa che di questi tempi il Paese non si può certo permettere vista la situazione generale dell’economia, la fame di lavoro che c’è, il perdurare della recessione, la pesante crisi che attanaglia ancora oggi molti comparti produttivi, e la scarsità di risorse a disposizione per gli interventi del governo.
Bisogna solo sperare che a livello aziendale, ovvero nelle sedi dove si dovranno discutere in concreto le misure per aumentare la produttività (nuovi turni, nuovi orari, nuova organizzazione del lavoro, ecc.), prevalga il realismo, e che il senso pratico abbia la meglio sui veti e le ideologie portando anche i rappresentanti della Cgil a siglare intese in grado di dare una scossa alla nostra economia.
Ancora ieri l’Istat, che ha rielaborato i dati degli ultimi vent’anni, ci ha messo di fronte alla triste realtà di un Paese che in questo campo è agli ultimi posti di tutte le graduatorie. Ed infatti dal 1992 al 2011 la nostra produttività è salita appena di uno 0,5% annuo. Addirittura dal 2003 ad oggi questo indice ha fatto segnare un ancor più misero +0,3% (anche per colpa - va detto delle nostre imprese che poco investono e poco innovano). Ebbene, di fronte a questo disastro, che pagano innanzitutto i lavoratori in termini di stipendi più bassi della media, la Cgil parla d’altro. E’ vero che il problema della rappresentanza («l’origine dei tanti problemi che si sono incontrati in questi anni») è tutt’ora irrisolto, ma cosa c’entra con la produttività, con un patto che si voleva «grande» per il rilancio della nostra economia, rivendicare - sino al punto da farne diventare una pregiudiziale - che la Fiom venga riammessa al tavolo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici? E’ vero che ci sono tanti «altri» problemi e questioni da affrontare, ma questo atteggiamento dà solo l’impressione di voler parlare d’altro dimenticandosi della vera essenza dei problemi.
ALESSANDRO BARBERA SULLA STAMPA DI STAMATTINA
Hanno discusso, riflettuto, si sono telefonati, scambiati mail e documenti per settanta giorni, qualche ora e una manciata di minuti. Il governo aveva chiesto un accordo che aumentasse la produttività sul lavoro ferma ai valori di vent’anni fa. In cambio aveva promesso a imprese e sindacati di finanziare aumenti in busta paga: due miliardi e cento milioni in due anni per la tassazione al 10% della parte di stipendio frutto degli accordi aziendali. Ieri sera, come previsto, è arrivato l’accordo separato senza la firma della Cgil. L’intesa sottoscritta dalle altre cosiddette «parti sociali» (sindacati, associazione delle banche, dei commercianti, degli artigiani) è comunque di massima. Solo un successivo decreto del governo stabilirà quali saranno le condizioni alle quali gli accordi aziendali potranno ottenere la tassazione agevolata.
Vediamo alcuni punti dell’accordo - in tutto otto - elencati dal comunicato di Palazzo Chigi. L’intesa «attribuisce ai contratti nazionali di tutelare il potere d’acquisto dei salari», ma (punto due) «si valorizza la contrattazione di secondo livello affidandole una quota degli aumenti economici eventualmente disposti dai rinnovi dei contratti nazionali con l’obiettivo di sostenere [...] misure di incremento della produttività». Inoltre (punti tre e quattro) l’accordo consentirà di discutere di «mansioni, organizzazione del lavoro, orario di lavoro e la sua distribuzione flessibile».
Il lettore poco avvezzo al sindacalese sarà già colpito da un potente mal di testa, ma la sostanza è semplice. L’accordo afferma un principio che potrebbe cambiare una volta per tutte le relazioni sindacali in Italia. Il contratto nazionale, che finora stabiliva in fiumi di pagine i dettagli dei contratti di un’intera categoria potrà essere derogato in azienda quasi in ogni dettaglio. I sindacati che hanno firmato sono convinti che questo garantirà buste paga più ricche, la Cgil pensa l’esatto contrario. L’esperienza di altri Paesi non dice questo, ma loro sono convinti che così accadrà.
Ora, come era già accaduto in passato, si pone una questione non secondaria: come procedere senza il consenso del sindacato con più iscritti? Passera si è augurato che la Cgil ci ripensi, e che alla fine contribuisca alla stesura del decreto di dettaglio. Ma ciò non avverrà, sul punto ieri sera la Camusso è stata netta: «Le soluzioni unitarie si costruiscono, non si aderisce a posteriori». La Cgil resterà dunque fuori dalla trattativa, così da avere le mani libere quando ci sarà da discutere dei contratti di categoria e in azienda.
Inevitabile dunque che il no della Cgil pesi come un macigno sulla firma. In conferenza stampa i musi lunghi di Monti, Passera e Fornero parlavano da soli. Il premier le tenta tutte ma si capisce che non ci crede nemmeno lui: «L’accordo è un buon impiego di denaro pubblico. Non c’è stata la volontà di isolare nessuno. Non c’è una scadenza» per il sì della Cgil, ma il ripensamento, se ci sarà, «dovrebbe avvenire in tempi brevi». Bonanni (Cisl) è convinto che l’accordo «servirà a uscire dalle secche della crisi», Angeletti (Uil) auspica che la detassazione del salario aziendale diventi strutturale.
LA CAMUSSO SULLA STAMPA DI STAMATTINA
Il premier Mario Monti sembra (per quanto ciò sia possibile per una persona tanto lucida, se non “fredda”) quasi accorato nel suo appello. «Esprimiamo il vivo auspicio - dice - che l’intesa possa essere estesa anche alla Cgil». Spiega che «non c’è stata alcuna volontà di isolare nessuno», rifiuta di fissare un termine per ciò che rifiuta persino di chiamare un «ripensamento» del sindacato rosso, che chiama anzi «evoluzione di pensiero». E a un certo punto chiarisce che avrebbe voluto in conferenza stampa anche il segretario Cgil Susanna Camusso. Lei, invece, se n’è andata nel suo ufficio in Corso d’Italia. Ed appare furiosa per quella che giudica «una cosa antipatica, che mostra il carattere autoritario del premier». «Mi voleva far parlare - ci racconta Camusso - dopo di lui, Squinzi e Bonanni, e prima delle conclusioni di Passera. Uno show. “Dottoressa Camusso”, mi ha detto Monti, “non vuole mettere alla prova la capacità del governo di sopportare la critica”?»
E forse il leader della Cgil ha interpretato come paternalistica anche la replica di Monti alla richiesta Cgil di detassare le tredicesime. «Non è possibile, non lo consentono le condizioni della finanza pubblica - ha risposto gelido Monti - Spero che i futuri governi abbiano il cuore meno raggrinzito».
Facile dedurre come il numero uno della Cgil si auguri caldamente (a differenza del suo omologo Cisl Raffaele Bonanni) che, dopo le elezioni, a Palazzo Chigi non sieda più quel Professore dal cuore tanto «raggrinzito». «Con questo accordo - spiega il segretario Cgil - il governo stabilisce chiaramente che la “sua” via per lo sviluppo del paese è la riduzione generalizzata dei salari». Una strategia tutto sommato simile a quella perseguita in Grecia dalla trojka UeBce-Fmi: «sono sempre i lavoratori a pagare il conto. Prima con la mannaia sulle pensioni, poi con i tagli della sanità e dei servizi, e ora con il taglio dei salari».
Ma questo accordo, obiettiamo, non dovrebbe aprire la strada ad aumenti salariali detassati? Macché, risponde Camusso, d’ora in poi («come ha giustamente compreso e scritto il professor Pietro Ichino») il tetto massimo degli aumenti salariali sarà dato dall’Ipca, ovvero l’inflazione depurata dagli aumenti del petrolio. «Da quella somma si prenderanno i soldi per gli aumenti salariali aziendali di produttività - puntualizza il leader Cgil - e tirando le somme, per i lavoratori non solo non ci sarà alcun aumento netto di salario, ma piuttosto una riduzione netta della retribuzione rispetto a oggi». Ma la Cgil non applicherà mai e poi mai questa intesa? «Dove gli accordi aziendali sono buoni - conclude - li firmeremo. Altrimenti, no».
MARCO SODANO SULLA STAMPA DI STAMATTINA
Un confronto doppiamente impietoso: sia se si prende a paragone il passato, sia se si prendono a paragone gli altri paesi europei. Nell’uno come nell’altro caso è evidente che l’Italia è un paese immobile, che questa immobilità produttiva è doppiamente in grave in un periodo di recessione quasi globale, che la prospettiva è che le tasche dei lavoratori italiani siano - se possibile - ancora più vuote nel futuro prossimo.
Gli ultimi dati arrivano dall’Istat e sono spietati. Negli ultimi vent’anni, cioé a partire dal 1992, l’indice della produttività italiana è cresciuta solo dello 0,5% annuo. Negli ultimi dieci anni - ovvero dal 2003 - si concentra la frenata più marcata. Risultato davvero troppo modesto per un paese di innovatori quale tutto sommato siamo ancora nella percezione dei nostri partner commerciali esteri. E snodo decisivo per riportare gli indici congiunturali nostrani stabilmente nella parte positiva dei grafici. Non è un caso che il governo, studiando il pacchettone della legge di stabilità, abbia riservato alla voce produttività uno stanziamento da record. Oltre 2 miliardi di euro che però saranno disponibili «solo se imprese e sindacati - parole del ministro Fornero - saranno capaci di trovare un’intesa di qualità sui contenuti». Quello della produttività è il nodo sul quale il governo conta per sgessare le rigidità delle relazioni industriali e del mondo del lavoro all’italiana. Tavoli nei quali il sindacato non sembra mai disponibile a mettere in primo piano le esigenze produttive. Gli accordi senza una parte del sindacato - vedi il caso Pomigliano - non funzionano. E di qui l’urgenza del governo di garantire un’intesa unitaria.
Le cifre del rapporto sono molto chiare sul punto. Nel periodo 1992-2011 la produttività totale dei fattori, quella che misura la crescita nel valore aggiunto attribuibile al progresso tecnico e a miglioramenti nella conoscenza e nei processi produttivi, ha registrato, «una crescita media annua dello 0,5%, a fronte di un incremento medio dell’1,1% del valore aggiunto e dello 0,7% dell’impiego complessivo di capitale e lavoro». La dinamica della produttività totale dei fattori nel corso delle principali fasi cicliche dell’economia italiana «è molto simile a quella della produttività del lavoro», osserva l’Istat.
Viceversa, nell’arco della fase 1993-2003 si è osservata una crescita media annua dello 0,7%, mentre in quella successiva la dinamica rallenta marcatamente, con un incremento medio dello 0,3%. «Tale frenata è il risultato della minore crescita del valore aggiunto (+1,4% nel periodo 2003-2008 e +1,9% nel periodo 1993-2003) rispetto a quanto imputabile all’impiego congiunto degli input produttivi (1,1% nel periodo 2003-2008 e 1,2% nel periodo 1993-2003)», spiega l’Istituto di statistica.
Negli anni successivi arriva poi la spada di Damocle della grande crisi, che strozza l’attività economica a livello mondiale e si ripercuote in modo molto evidente sulla congiuntura italiana. Nel 2009 la produttività totale dei fattori diminuisce del 4,9% per effetto della forte contrazione del valore aggiunto, ben superiore a quella dell’impiego complessivo dei fattori produttivi (-3,1%). Nel 2010 alla vivace crescita del valore aggiunto (+3,2%) si accompagna un’ulteriore, seppur modesta, diminuzione dell’impiego dei fattori produttivi (-0,3%); di conseguenza, la produttività totale dei fattori aumenta del 3,5%. Nel 2011 la dinamica della produttività totale dei fattori torna modesta (+0,4%) per effetto della debolezza della crescita del valore aggiunto (+0,7%) cui si aggiunge una risalita dell’impiego di fattori produttivi (+0,3%).
La dinamica economica da sola non basta, insomma, a risvegliare la corsa della produttività. Il governo mette sul piatto una contropartita che può fare la differenza. Ora tocca ai sindacati trovare la strada per accordarsi con le imprese. Potrebbe essere l’ultima occasione.
I SETTE PUNTI
nFISCO. È necessario che il governo «tracci le linee guida per attuare una riforma strutturale del sistema fiscale che lo renda più equo e, quindi, in grado di ridurre la quota del prelievo che oggi grava sul lavoro e sulle imprese in maniera del tutto sproporzionata». Le parti sociali «convengono sulla necessità di condividere col governo i criteri di applicazione degli sgravi fiscali e contributivi per il salario di produttività».
nRELAZIONI INDUSTRIALI.
Il contratto nazionale, garantendo «la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori, deve prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione delle materie e delle modalità che possono incidere positivamente sulla crescita della produttività, quali gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro». I contratti nazionali possono quindi «definire che una quota degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata a elementi retributivi da collegarsi a incrementi di produttività».
nRAPPRESENTANZA. Entro il 31 dicembre bisognerà «consentire l’avvio della procedura di misurazione della rappresentanza». Le intese dovranno prevedere «disposizioni efficaci per garantire l’effettività e l’esigibilità delle intese, il rispetto delle clausole di tregua sindacale, di prevenzione e risoluzione delle controversie collettive, le regole per prevenire i conflitti, non escludendo meccanismi sanzionatori per le organizzazioni inadempienti».
nPARTECIPAZIONE. Imprese e sindacati, considerato che la riforma del mercato del lavoro «dispone che siano i contratti collettivi a dare attuazione alle misure per la partecipazione», chiedono al governo di esercitare la delega. Ritengono che i contributi versati per il welfare contrattuale «debbano beneficiare di un regime fiscale e contributivo di vantaggio, a partire dalla previdenza complementare». Sarebbe utile «favorire l’incentivazione dell’azionariato dei dipendenti, anche in forme collettive».
nFORMAZIONE. È necessario «un miglior coordinamento tra il sistema della formazione pubblica e privata per ottenere maggiori benefici e migliori risultati e per favorire processi di coordinamento e indirizzo con le politiche attive».
nMERCATO DEL LAVORO.
Imprese e sindacati chiederanno al governo «un confronto per verificare gli effetti sull’occupazione della recente riforma». Bisogna «conciliare le esigenze delle imprese e quelle dei lavoratori più anziani, favorendo percorsi che agevolino la transizione dal lavoro alla pensione, creando nello stesso tempo nuova occupazione anche in una logica di solidarietà intergenerazionale».
nCONTRATTI COLLETTIVI.
A questo livello spetta «piena autonomia negoziale sulla ridefinizione dei sistemi di orari e della loro distribuzione anche con modelli flessibili» e sulle nuove tecnologie».