Marco Sodano, la Stampa 22/11/2012, 22 novembre 2012
VENT’ANNI DI LAVORO BUTTATI
L’INDICE FERMO AI VALORI DEL ’92–
Un confronto doppiamente impietoso: sia se si prende a paragone il passato, sia se si prendono a paragone gli altri paesi europei. Nell’uno come nell’altro caso è evidente che l’Italia è un paese immobile, che questa immobilità produttiva è doppiamente in grave in un periodo di recessione quasi globale, che la prospettiva è che le tasche dei lavoratori italiani siano - se possibile - ancora più vuote nel futuro prossimo.
Gli ultimi dati arrivano dall’Istat e sono spietati. Negli ultimi vent’anni, cioé a partire dal 1992, l’indice della produttività italiana è cresciuta solo dello 0,5% annuo. Negli ultimi dieci anni - ovvero dal 2003 - si concentra la frenata più marcata. Risultato davvero troppo modesto per un paese di innovatori quale tutto sommato siamo ancora nella percezione dei nostri partner commerciali esteri. E snodo decisivo per riportare gli indici congiunturali nostrani stabilmente nella parte positiva dei grafici. Non è un caso che il governo, studiando il pacchettone della legge di stabilità, abbia riservato alla voce produttività uno stanziamento da record. Oltre 2 miliardi di euro che però saranno disponibili «solo se imprese e sindacati - parole del ministro Fornero - saranno capaci di trovare un’intesa di qualità sui contenuti». Quello della produttività è il nodo sul quale il governo conta per sgessare le rigidità delle relazioni industriali e del mondo del lavoro all’italiana. Tavoli nei quali il sindacato non sembra mai disponibile a mettere in primo piano le esigenze produttive. Gli accordi senza una parte del sindacato - vedi il caso Pomigliano - non funzionano. E di qui l’urgenza del governo di garantire un’intesa unitaria.
Le cifre del rapporto sono molto chiare sul punto. Nel periodo 1992-2011 la produttività totale dei fattori, quella che misura la crescita nel valore aggiunto attribuibile al progresso tecnico e a miglioramenti nella conoscenza e nei processi produttivi, ha registrato, «una crescita media annua dello 0,5%, a fronte di un incremento medio dell’1,1% del valore aggiunto e dello 0,7% dell’impiego complessivo di capitale e lavoro». La dinamica della produttività totale dei fattori nel corso delle principali fasi cicliche dell’economia italiana «è molto simile a quella della produttività del lavoro», osserva l’Istat.
Viceversa, nell’arco della fase 1993-2003 si è osservata una crescita media annua dello 0,7%, mentre in quella successiva la dinamica rallenta marcatamente, con un incremento medio dello 0,3%. «Tale frenata è il risultato della minore crescita del valore aggiunto (+1,4% nel periodo 2003-2008 e +1,9% nel periodo 1993-2003) rispetto a quanto imputabile all’impiego congiunto degli input produttivi (1,1% nel periodo 2003-2008 e 1,2% nel periodo 1993-2003)», spiega l’Istituto di statistica.
Negli anni successivi arriva poi la spada di Damocle della grande crisi, che strozza l’attività economica a livello mondiale e si ripercuote in modo molto evidente sulla congiuntura italiana. Nel 2009 la produttività totale dei fattori diminuisce del 4,9% per effetto della forte contrazione del valore aggiunto, ben superiore a quella dell’impiego complessivo dei fattori produttivi (-3,1%). Nel 2010 alla vivace crescita del valore aggiunto (+3,2%) si accompagna un’ulteriore, seppur modesta, diminuzione dell’impiego dei fattori produttivi (-0,3%); di conseguenza, la produttività totale dei fattori aumenta del 3,5%. Nel 2011 la dinamica della produttività totale dei fattori torna modesta (+0,4%) per effetto della debolezza della crescita del valore aggiunto (+0,7%) cui si aggiunge una risalita dell’impiego di fattori produttivi (+0,3%).
La dinamica economica da sola non basta, insomma, a risvegliare la corsa della produttività. Il governo mette sul piatto una contropartita che può fare la differenza. Ora tocca ai sindacati trovare la strada per accordarsi con le imprese. Potrebbe essere l’ultima occasione.