Dario Pappalardo, la Repubblica 22/11/2012, 22 novembre 2012
COSÌ HO CHIUSO CON LO STRESS
[Maurizio Cattelan]
Tre giorni fa, a Maurizio Cattelan è capitato tra le mani il catalogo con tutte le sue opere. L’ha tenuto aperto per un po’ e gli è venuta la nausea: «Era da nove mesi che non lo guardavo... all’inizio l’ho trovato bello, poi però ho smesso di sfogliarlo». Un anno e mezzo fa, annunciava l’addio all’arte contemporanea, culminato con la retrospettiva al Guggenheim di New York, la città dove l’artista vive. Lo ha detto e lo ha fatto. A cinquant’anni, dopo provocazioni, animali impagliati, sculture iperrealistiche battute all’asta per milioni di dollari, ha lasciato tutto.
Cattelan, perché si decide di smettere?
«Arriva un punto in cui stress e impegni ti portano ad alzare bandiera bianca. Si smette perché non si sente più quella tensione che ti prende quando devi consegnare un’opera e non sai ancora come risolverla. L’adrenalina finisce. Si smette quando si capisce che tanto le cose non saranno più come prima. Si smette per non diventare la macchietta di se stessi».
C’è una schiavitù della creazione?
«Ognuno stabilisce un proprio standard di qualità e cerca di mantenerlo. C’è un momento in cui si entra in un ciclo di ripetizione e quella è la cosa da evitare. Il nostro, visto dal di fuori, sembra uno stato superiore. Invece è una maledizione. C’è chi è obbligato a scrivere. Chi a realizzare opere nuove. Ancora mi chiedono: “Che mostre stai facendo?”. Io rispondo: “Niente”. “E allora cosa fai?”, mi dicono. Siamo obbligati in continuazione a dimostrare di fare qualcosa».
Come sono cambiate le sue giornate, dopo l’“addio”?
«Philip Roth ha comprato l’iPhone; io invece i primi quaranta giorni ho spento tutto e me ne sono partito in bici. Non ho più lo stress del calendario. Leggo di più. La notte ho iniziato a dormire regolarmente sette ore di fila. Il sonno è più tranquillo. Prima riposavo cinque ore, e in mezzo mi svegliavo due volte. Comunque sono sempre alla ricerca di qualcosa che mi stimoli. Ho solo spostato la mia attenzione su altro: posso passare anche otto ore a “surfare” in Rete a caccia di immagini. Curo la rivista Toilet Paper, ma si tratta di un progetto di équipe».
Se le venisse un’idea nuova, riprenderebbe a fare l’artista?
«Finora non è successo. Prima venivano le occasioni e poi le idee. Ora le occasioni cerco di non crearle proprio. Due giorni fa, mentre guardavo un’immagine, mi sono ridetto per la prima volta: “Questo può diventare lo spunto per un’opera”. Allora mi sono un po’ preoccupato. Ma poi ho frenato tutto. E comunque se dovessi tornare, lo farei con qualcosa di completamente diverso: non parlatemi di manichini e di animali impagliati».
In giro ci sono ancora mostre con le sue opere, però.
«Ma non sono curate da me. Anzi, è interessante vedere come il lavoro che hai fatto possa avere un’ulteriore vita senza di te. Sono abbastanza distaccato rispetto a questo ed è la dimostrazione che si tratta di un capitolo chiuso. Inevitabilmente, con gli anni si assiste alla condanna a morte dei tuoi lavori. Bisogna vedere quale sopravvive. Se della produzione di un artista si riescono a salvare anche poche opere, è già un bel successo».
Qual è l’aspetto più difficile del lasciare tutto?
«La cosa più difficile non è “smettere”, ma sapere che sei completo anche senza “creare” niente. L’unico modo per rigenerarsi è capire davvero che non devi dimostrare più nulla: poter dire “non sto facendo niente” e non vergognarsi. Sarebbe la più grande lezione zen. Per ora non mi sento ancora così, ma mi sto disintossicando».