Gabriele Romagnoli, la Repubblica 22/11/2012, 22 novembre 2012
L’ADDIO
L’attacco di questo pezzo è una chiusa. Sono tutti ossessionati dagli incipit, nessuno mai che si fermi a esaminare un finale. Eppure è altrettanto determinante. “Come vi siete conosciuti?”, ma anche: “Come vi siete lasciati?”. Disincanto e cortesia: l’arte dell’uscire di scena. La scelta del momento perfetto, quella richiede istinto e genio. La cerimonia degli addii è celebrata sotto l’egida del tempismo.
Quando è che si impone, perché lo spettacolo non diventi uno strascico? L’anno che si chiude ha tirato molti sipari, in diversi teatri. Per citare tre ritiri eccellenti: Philip Roth smette di scrivere, Michael Phelps di nuotare, Quentin Tarantino (annuncia) di non girare più film. Di per sé basterebbe a rendere meno attraenti librerie, olimpiadi e sale cinematografiche. Se non ci si chiedesse: che cosa hanno veramente da dare ancora Roth, Phelps e Tarantino? Probabilmente se lo sono chiesti pure loro e hanno risposto di conseguenza. Tarantino teorizzandolo: l’importante è finire con un orgasmo. Prima della stagione dell’impotenza. Prima che Nathan Zuckerman, alter ego letterario di Roth, conosca l’ennesima senile sbandata per una donna giovane. Prima che gli occhialetti di Phelps inquadrino la schiuma di chi gli sbraccia davanti. E se, invece, stessero rinunciando a qualcosa, per sé e per gli altri, senza neppure rendersene conto?
Passi gli anni migliori della tua vita facendo praticamente una sola cosa. Roth si alzava, andava nella dependance, apriva il quaderno sul leggio dove scriveva restando in piedi per problemi alla schiena. Ore e ore. Phelps passava dal letto alla piscina. Vasche su vasche. Tarantino vive(va) in un film. Come loro molti altri, tutti quelli che rappresentano l’eccellenza nel loro settore, giacché per conquistarla hanno dovuto sommare a un pugno di talento almeno diecimila ore di esercizio (lo teorizza, dati e storie alla mano, Malcolm Gladwell in Outliers). Quello in cui si esprimono è quello per cui vivono? Come possono farne a meno? Possono accettare di abbassare il livello delle loro prestazioni?
Alcuni hanno risposto sì all’ultima domanda. Il cannibale Eddy Merckx smise di divorare avversari ma continuò a pedalare, a fondo gruppo. A noi faceva tristezza, non c’era rivincita nel batterlo così, solo tristezza. Ma per lui era “sempre meglio che”: stare a casa, lucidare le coppe, riguardare vecchi album. Perché? A volte si mette di mezzo l’intelligenza: troppo tempo per pensare è una trappola. A differenza di Tarantino, Woody Allen continua a fare film, o meglio mette in circolazione i super 8 delle sue vacanze in Europa. Consapevole del trascurabile livello di queste pellicole, sostiene che, altrimenti «sarebbe sopraffatto dal vuoto, costretto ad ammettere a ogni passo che la vita è insensata ».
Altri hanno più paura di rendersi ridicoli, che di trovare ridicola l’esistenza. Platini uscì dal campo prima di avere in squadra un ragazzino che tirava le punizioni al posto suo. Se Zidane avesse seguito l’esempio si sarebbe risparmiato un colpo di testa che ne ha oscurato la carriera. Il problema è che non sai mai che cosa ti resta. Sai solo quel che hai avuto. Alzarsi da tavola con un po’ di appetito ancora è una regola aurea, ma i commensali e chi ha preparato il pasto possono restarci male.
Che cos’è: rispetto per il pubblico o arroganza? Se non puoi essere il migliore allora te ne vai?
La frase chiave è: «Ho ottenuto tutto quel che volevo». Quindi era soltanto per te stesso che facevi quel che facevi? Probabilmente e desolatamente sì. O, tuttalpiù, per destinatari limitati. A volte uno solo. Per decenni della sua vita Georges Simenon si alzò alle quattro, si vestì, appese la giacca alla spalliera della sedia di fronte alla scrivania e cominciò a scrivere. Furiosamente: anche ottanta cartelle al giorno. Produsse (con il suo nome o sotto pseudonimo) centinaia di romanzi. Poi sua madre morì. Lui sopravvisse altri tredici anni e non scrisse una sola riga.
In realtà svolgere una qualunque attività pubblica, sulla quale il mondo intero possa emettere un giudizio, richiede alcune qualità. Coraggio, certo. Una qualche fiducia in se stessi che a volte può sconfinare nella spavalderia. Ma, soprattutto, è necessaria una vaga forma di amore, per gli altri e ancor di più per se stessi. Scrivi libri, giri film, giochi negli stadi perché migliaia o milioni di persone possano provare emozioni, divertirsi o commuoversi. Esci dal tuo guscio con l’arrogante umiltà di pensare che tu hai qualcosa da offrire: una riga, una scena, un salto in alto. E lo metti lì, a disposizione, sapendo che qualcuno potrà fischiare, che il giorno dopo riceverai una pagella. Puoi guadagnare molto, puoi rimetterci di più. Devi essere preparato alla sconfitta, al fallimento, alla cattiveria. Faranno a gara per essere i primi a esaltarti e i primi a demolirti. Si cuciranno medaglie con la tua pelle.
Se sei di quelli che ce l’avranno fatta perché dovresti, d’improvviso, smettere? Consapevolezza, certo. In realtà sei stato tu il primo a riconoscere il tuo talento. Come puoi non essere il primo a capirne l’esaurimento? Ma c’è molto di più. Si chiama disamore. Smetti quando non ami più. Non ami il prossimo tuo che legge o guarda. Sei Philip Roth e pensi che questa massa di imbecilli ti sopravviverà, e non è giusto. Non ami più te stesso. Esporsi è un atto di narcisismo. Lo è anche ritirarsi e vedere l’effetto che fa. Potersi suicidare e andare al proprio funerale. Solo che a quel funerale hai diritto a leggerti l’eulogia. Ed è una pagina bianca. Finalmente.