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 2012  novembre 22 Giovedì calendario

PERCHÉ SERVE MOLTO DI PIÙ


SONO passati quasi 20 anni dallo storico patto sociale del luglio 1993 che allontanò il nostro Paese dal baratro impedendo che gli effetti della svalutazione della lira sulla competitività delle nostre imprese venissero vanificati dall’aumento del costo del lavoro.

In questi 20 anni la produttività del lavoro è aumentata di un modestissimo 0,1 per cento all’anno, l’inflazione è stata mediamente più alta di un punto e mezzo all’anno che nella media Euro e abbiamo così accumulato un divario crescente di competitività rispetto agli altri paesi, Germania in primis. Oggi siamo sprofondati in una nuova crisi, socialmente più pesante di quella di vent’anni fa anche perché dura ormai da 5 anni. Per tornare a crescere abbiamo disperatamente bisogno di un nuovo patto sociale: la spinta alla nostra economia non può che venire, in questo frangente, dalla domanda estera. Mai come oggi, crescita e internazionalizzazione sono due facce della stessa medaglia.
Purtroppo l’accordo firmato ieri sera a Palazzo Chigi ha ben poco in comune con quello del 1993. Innanzitutto si tratta di un accordo separato, dal quale rimane questa volta fuori il maggiore sindacato italiano. Ma il vero problema è che sembra il patto di un paese depresso, di una classe dirigente e di parti sociali senza idee. Servirà forse a salvarci la faccia, ad avere un documento da esibire in Europa. Ma non è certo questo il patto sociale di cui avremmo bisogno. È un bene che venga recepita l’intesa raggiunta nel luglio 2008 da sindacati e associazioni di categoria. Purtroppo è un recepimento tardivo e solo formale: per attrarre investitori dall’estero, per migliorare le nostre relazioni industriali, evitando casi come quelli della Fiom a Pomigliano, bisognerebbe al più presto approvare una legge sulle rappresentanze sindacali colmando un vuoto aperto dalla nostra Costituzione e approfondito dalle divisioni nel sindacato. Positivo anche il riconoscimento della necessità di spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello della singola azienda. Soprattutto in questa seconda recessione, iniziata nella seconda parte del 2011, assistiamo ad una crescente polarizzazione nella performance delle imprese: abbiamo quasi il 50% di aziende che vedono calare il loro fatturato di più del 10 per cento e un terzo di imprese (soprattutto quelle che esportano) che lo vedono crescere più del 10 per cento mentre solo in un’azienda su 10 il fattura rimanere costante. Questa sempre più stridente asimmetria nei comportamenti delle imprese rende le maglie della contrattazione nazionale troppo strette: alcune aziende hanno bisogno di cercare di contenere gli esuberi, riducendo gli orari di lavoro e abbassando i salari; altre possono invece permettersi di pagare retribuzioni più alte. Non c’è mai stato un aumento salariale che potesse andare bene per tutte le imprese italiane in un dato settore. Oggi questa taglia unica che dovrebbe andare bene per tutti c’è ancora meno che in passato. Ma nel documento non si va oltre le enunciazioni di principio, le stesse che hanno lasciato per lunghi anni milioni di lavoratori senza contratto. Da molto tempo si sostiene e si scrive che bisogna decentrare la contrattazione in Italia ma non lo si fa: perché dovrebbe essere questa la volta buona?
Negli innumerevoli “auspicano”, “ritengono utile”, nell’“intendimento di convenire” del documento di ieri vengono anche tessute le lodi della partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Proporre questo in un momento di crisi equivale a una colossale presa in giro: i lavoratori che diventassero oggi azionisti della loro impresa aggiungerebbero al rischio di perdere il lavoro quello di vedere bruciati i risparmi di una vita.
Ma la cosa più discutibile del documento risiede nell’unica misura concreta prevista. Si tratta della defiscalizzazione della componente del salario legata ai premi di produttività. È una misura che esiste dal 2007 e che non ha portato ad alcun incremento della contrattazione cosiddetta di secondo livello, quello che dovrebbe legare salari e produttività. Addirittura la quota di imprese in cui si firmano contratti aziendali è diminuita. Al tempo stesso è una misura diventata sempre più costosa per le casse dello Stato tant’è che il Governo, impegnato nel raggiungere il pareggio di bilancio, l’aveva sospesa per il 2013. Il fatto è che si presta ad abusi perché permette a lavoratori e imprese di detassare quote del salario indipendentemente da qualsiasi incremento di produttività. Conviene ad entrambi pagare meno tasse, non certo a chi dovrà farlo anche per loro. Certo, gli abusi possono essere contenuti fissando limiti alla quota di salario che potrà essere detassata. L’accordo stabilisce questa soglia nel 5 per cento. Ma non è affatto chiaro se tale quota potrà crescere nel tempo, anno dopo anno. Delle due l’una: se si può al massimo detassare il 5 per cento del salario ogni anno, l’incentivo sarà comunque troppo basso per stimolare un incremento di produttività. Se invece la soglia si cumula nel tempo, si rischia di smantellare la base fiscale dell’Irpef. Pensiamo poi ai problemi per l’erario nel valutare componenti di salario soggette a regimi fiscali così diversi. Per farlo bisognerà sottrarre risorse amministrative che andrebbero oggi dedicate interamente al contrasto dell’evasione, possibilmente con l’incrocio di banche dati, anziché con misure propagandistiche come il Redditest.