Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 19 Lunedì calendario

METTERSI IN REGOLA? NO, GRAZIE AI CINESI PIACE LA CLANDESTINITÀ [A

Prato, capitale del «distretto parallelo»del tessile, le domande di emersione dal lavoro nero sono state appena mille. A fronte di 25mila irregolari stimati] –
Chiamateli pure fantasmi. Perché nonostante siano il mo­tore di quel «distretto paralle­lo » industriale che produce ogni giorno un milione di capi di abbigliamento low cost - con un giro d’affari di due miliardi ­gran parte dei cittadini cinesi che lavorano nel manufatturie­ro di Prato per azien­de di conna­zionali non esistono né per il co­mune della città toscana né per il ministero degli Interni. Erano e rimangono in gran parte clan­destini.
Lavo­ratori inchio­dati alle mac­chine da cuci­re per dodici ore al giorno, sette giorni su sette. Senza nessuna tute­la e spesso sen­za neppure un’identità. Anche se han­no garantito ai loro boss asiatici introi­ti da capogiro nel bel mezzo della crisi eco­nomica peg­giore degli ul­timi ottanta anni. Lo dico­no i d­ati del Viminale sulla sana­toria che si è chiusa il 15 ottobre scorso e ha permesso a 134.576 lavoratori stranieri irregolari, in tutta Italia, di tentare la stra­da della regolarizzazione ( le do­mande devono essere vagliate dal ministero). A Prato, la via d’uscita dall’emersione è stata percorsa da appena 1054 lavo­ratori extracomunitari irregola­ri. Chiamarlo flop è un eufemi­smo. Perché i numeri non la­sciano dubbi ma avevano la­sciato speranze. Le stime - ela­borate sulla base di statistiche e a seguito dei blitz quotidiani sulle imprese del manufatturie­ro «parallelo» e del suo indotto­parlano di circa 20- 25 mila clan­destini presenti sul territorio. Considerata l’altissima densità di immigrati cinesi a Prato- i re­sidenti sono 13.056 su un totale di 30.186 stranieri, cioè quasi la metà, e inclusi i «non» residenti rappresentano il 43,3% della po­polazione straniera totale -l’amministrazione comunale prevedeva un’emersione di al­meno 8mila e fino a 12mila lavo­ratoriclandestini provenientidal gigante asiatico.D’altra par­te le imprese orientali attive a Prato- secondo un libro-inchie­sta della giornalista Silvia Pie­raccini - sono circa 4.500, di cui 3.400 solo nel distretto degli abi­ti low cost. E invece nulla di fat­to. Anche perché la metà delle 1.054 domande è stata presen­tata da lavoratori domestici, colf o badanti e non da lavorato­ri nel settore industriale, come sono gran parte dei cinesi pre­senti a Prato e dintorni. «I datisono più che deludenti», spie­ga alGiornaleGiorgio Silli, as­sessore all’Integrazione della prima amministrazione comu­nale di centrodestra a Prato in cinquant’anni di potere rosso incontrastato.
Come nel resto d’Italia,a giu­stificare la scarsa adesione può avere influito un sistema esoso e poco ghiotto: era previsto che la domanda venisse presentata dal datore di lavoro, dietro ver­samento di mille euro, non rim­borsabili in caso di rifiuto di do­manda, e oltre al pagamento de­gli ultimi sei mesi di contributi evasi. Ma tutto questo non ba­sta a spiegare il fenomeno. «Era l’occasione della vita per molti imprenditori cinesi, quella di non andare in carcere», spiega l’assessore Silli riferendosi alle pene previste, da sei mesi a tre anni di carcere e una multa di 5mila euro per chi impiega unlavoratore straniero irregolare. E invece «hanno calcolato che il pagamento dei contributi avrebbe reso il loro prodotto non più concorrenziale». «Non solo-spiega Silli, che ci tiene a ri­cordare di aver lavorato molto in questi anni per l’integrazio­ne e si lancia ora in una lettura sociologica del fenomeno- : i la­voratori cinesi sono disposti a farsi schiavizzare perché san­no o sognano anche loro di di­ventare un giorno imprendito­ri ».
Delusione e rabbia da parte delle istituzioni pratesi, che ve­dono l’industria tessile cinese e il suo indotto ingrassare in bar­ba alle regole italiane. «E poi ogni giorno circa un milione e mezzo di euro parte viamoney transfer da Prato verso la Cina». Il distretto parallelo marcia ma lascia a bocca asciutta la città.