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 2012  novembre 22 Giovedì calendario

«T utto il male avevamo di fronte/ tutto il bene avevamo nel cuore», dice una strofa della canzone «Oltre il ponte», scritta da Italo Calvino sulla musica di Sergio Liberovici

«T utto il male avevamo di fronte/ tutto il bene avevamo nel cuore», dice una strofa della canzone «Oltre il ponte», scritta da Italo Calvino sulla musica di Sergio Liberovici. Canzone struggente. Forse la più bella sui sogni che animavano i partigiani. Ma già percorsa nel 1961, quando ancora nessuno osava mettere in dubbio la mitica purezza della Resistenza, da un dubbio malinconico: «Non è detto che fossimo santi,/ l’eroismo non è sovrumano…». Eva Klotz no, non ha dubbi. Per lei tutto il male è sempre stato dalla parte degli italiani, tutto il bene dalla parte dei sudtirolesi. Demoni contro angeli. Certo, non deve essere facile per la figlia del «Martellatore della Val Passiria», cresciuta nel culto di un padre «eroe», scrivere un libro su di lui. Come ha fatto con Georg Klotz. Una vita per l’unità del Tirolo, pubblicato dalla Effekt! Buch. Per Eva il tempo si è fermato quel giorno in cui, nell’estate del ‘61, dopo la «notte dei fuochi» della domenica del Sacro Cuore in cui i dinamitardi sudtirolesi avevano fatto saltare 37 tralicci mettendo fuori uso otto centrali elettriche e sette dei nove elettrodotti, un brigadiere dei carabinieri sorprese Georg, che in famiglia chiamavano Jörg, mentre rientrava dopo una giornata passata a falciare i campi. E prima che avesse il tempo di scappare lo bloccò puntandogli la pistola alla nuca: «Lo portò in casa. Per noi bambini e per la mamma fu una scena terribile. Eravamo impietriti! Jörg era pallido come un cencio e non diceva nulla. "Lei verrà ora con me, Klotz", disse il brigadiere in italiano». Riuscì a scappare, quel giorno, il fabbro di Walten in alta Val Passiria. Grazie alla furbizia della moglie Rosa, che pretese brusca che il marito, prima d’esser portato via per l’interrogatorio, l’aiutasse a sistemare un mobile in un’altra stanza. E grazie alla buonafede di quel carabiniere, che non doveva poi essere così crudele e sanguinario per farsi uccellare così. Cominciava così la latitanza di quello che forse fu il più noto dei «terroristi sudtirolesi». Una quindicina di anni di fughe, attentati, marce forzate per boschi e montagne, fugaci appuntamenti clandestini con Rosa e i figli, polemiche a distanza con quelli che pensavano fosse meglio stare alla larga dalla violenza e trattare, sia pure aspramente, con le autorità italiane. A partire da Silvius Magnago, al quale la «pasionaria» sudtirolese, entrata in Consiglio provinciale come indipendente 37 anni fa con la Svp e oggi alla testa di un movimento più radicale, rimprovera di avere detto: «Se sapessi chi è coinvolto negli attentati, lo denuncerei, anche se si trattasse del mio stesso fratello». Fu una guerra sporca, quella che sconvolse l’Alto Adige negli anni Sessanta e proseguì con attentati sporadici fino alla fine degli anni Ottanta. E ripercorrere la vita di Klotz aiuta a capire come fu vissuta dall’«altra» parte. Per uno scherzo del destino, Georg nacque esattamente il giorno dopo gli accordi di Saint-Germain del settembre 1919 che, in seguito alla guerra perduta dall’Austria, avevano assegnato l’Alto Adige all’Italia, e fu investito in pieno, fin da piccolo, dalle prepotenze del fascismo. Il quale si spinse a chiudere le scuole tedesche, imporre toponimi italiani per località da secoli e secoli tedesche (tipo Hühnerspiel: Cima Gallina), cambiare talora i nomi dei morti sulla lapidi (Josef Brunner diventava Giuseppe Fontana…) fino a spingere tantissimi sudtirolesi, con le «opzioni» del 1939, nell’abbraccio hitleriano. Una scelta sventurata. Contro la quale inutilmente si batté il prelato Michael Gamper, convinto che il nazismo fosse il demonio e che comunque i sudtirolesi dovessero restare sulla loro terra. Tutta la famiglia Klotz scelse il Terzo Reich. Georg si arruolò nella Wehrmacht, finì nella Mosella, poi in Danimarca, in Norvegia e in Finlandia, dove non pare avvertisse la contraddizione — a leggere la figlia — tra il rifiuto d’esser occupato nella terra sua e l’occupare le terre altrui. Al ritorno a casa dopo la guerra, la conferma della sovranità italiana e il prosieguo dell’italianizzazione del Sud Tirolo, con la distribuzione dei posti pubblici e delle case popolari soprattutto agli immigrati dalla Penisola, gli furono insopportabili. Così come la scelta di Magnago e della Svp di trattare su una larga autonomia, scartando l’ipotesi di scatenare la guerriglia trasformando le valli altoatesine in una specie d’Irlanda del Nord. Imbevuto di venerazione per il patriota tirolese Andreas Hofer e insieme di disprezzo per le genti italiche (Eva scrive che, quando nel 1943 gli fu ordinato di addestrare una brigata italiana di repubblichini, il bravo papà in divisa hitleriana «non nascose ai superiori le sue idee sulla scarsa affidabilità degli italiani»), Georg si convinse che fosse inutile trattare. Meglio la violenza. Sia pure senza gli eccessi sanguinari dei più fanatici «patrioti» sudtirolesi, spesso rimasti nazisti e autori di stragi ed esecuzioni sommarie. Glielo riconobbero allora anche gli esperti di terrorismo altoatesino come Gianni Roghi. Il quale raccontò su «L’Europeo» come «il Martellatore» fosse riuscito a scampare miracolosamente alle pistolettate di un giuda tirolese infiltrato dai nostri «servizi», Christian Kerbler, che aveva ucciso nel sonno il suo amico Luis Amplatz, e come si fosse messo in salvo dopo una marcia pazzesca a piedi nudi, ferito, attraverso i passi montani ripercorsi tanti anni dopo dalla figlia. E scrisse: «Klotz non ha ucciso nessuno, non ha sparato a freddo a nessuno, mi ha dichiarato che non ne sarebbe capace: si è accanito sui tralicci, è indubbiamente riuscito ad agitare la questione politica che gli stava a cuore». È utile, leggere il libro della Klotz. Aiuta a capire gli errori degli italiani, a riflettere sull’uso inaccettabile delle torture, a vedere le cose con gli occhi di un «nemico». Ma proprio perché l’Italia ormai da tanti anni, fin dai tempi dei reportage come quello citato, ha imparato a riconoscere le proprie responsabilità fino a dare al Sud Tirolo un’autonomia opulenta che non ha eguali, colpisce come Eva Klotz trasudi ancora un rancore calloso e insanabile. Lei dirà sorridendo, bella, bionda e merlettata, che no, non è vero, ci mancherebbe, una cristiana come lei! Ma c’è un dettaglio che dice tutto, nel libro. In 360 pagine c’è ampio spazio per la morte dei «patrioti» altoatesini, uno a uno ricordati e pianti, nessuno per i morti italiani. Non uno di tutti i poliziotti, i finanzieri, i carabinieri, i cittadini uccisi viene ricordato. Dal cantoniere Giovanni Postal al finanziere Bruno Bolognesi all’alpino Armando Piva… Neppure uno. Come se la loro morte, anche mezzo secolo dopo, fosse solo un dettaglio secondario nell’agiografia del Santo Martellatore.