Luciano Gulli, il Giornale 21/11/2012, 21 novembre 2012
Hitchcock. Alfred Hitchcock. Quello de La finestra sul cortile e di La donna che visse due volte, naturalmente
Hitchcock. Alfred Hitchcock. Quello de La finestra sul cortile e di La donna che visse due volte, naturalmente. Oppu¬re i fratelli Coen, quelli di L’uomo che non c’era. Ci vorrebbe il loro genio, la lo¬ro capacità visionaria per raccontare la vita della donna che per dodici anni riu¬scì a farsi credere uomo, rubando l’iden¬tità al fratello. C’è la stessa atmosfera so-spesa, la stessa suspense. La stessa capa¬cità schizofrenica di vivere due vite in una di certi personaggi di Hitchcock o dei Coen, o forse anche di Pirandello. Immaginate una lei di 38 anni, magra, gli zigomi ossuti, la voce aspra, i capelli corti, la bocca sottile. Il fisico l’aiuta. Lei ci aggiunge le note che mancano: una certa andatura, un modo di fumare, quel modo «macho» di tenere le mani in tasca. Per dodici anni-e ancora non sap¬piamo perché- va in giro come un qualsi¬asi Mario. Al cinema, allo stadio, al bar, con le donne(?), sul luogo di lavoro. Sì, anche in ditta ormai tutti sono convinti di avere a che fare con un operaio. Anzi, un «bravo» operaio, dicono tutti. Girata a Chicago, a Minneapolis, con una protagonista di nome Doris, per esempio, una storia così farebbe un al¬tro effetto, certo. Accade invece a Lisso¬ne, Brianza bassa, forse neppure Brian¬za, insomma la Lissone dei mobilifici e delle camerette per bambini. Cieli uggiosi, caldo afoso d’estate, freddo d’in¬verno, un’esposizione di mobili dopo l’altra, i neon delle vetrine che si rifletto¬no sull’asfalto di queste serate che or¬mai calano all’improvviso, portandosi dietro un fiato umido e freddo. Poca gen¬te in giro durante le ore di lavoro, qualche passante frettoloso in piazza, quan¬do il campanile della chiesa batte le ore. In sottofondo, se serve una colonna so¬nora, partono le note di una canzone di Franco Battiato. Dice così, la canzone: «Certe notti per dormire mi metto a leg¬gere e invece avrei bisogno di attimi di si¬lenzio». Si intitola Un’altra vita, appun¬to. «Doris», la donna che volle farsi uo¬mo, a Lissone è un volto fra i tanti. Casa, lavoro, un cinemino, il bar, le ferie. Tut¬to al maschile. La guardano, ma non ci trovano niente di strano. È una lei, ma chi osserva, chi saluta, chi si ferma a scambiare due chiacchiere vede un lui fatto e finito. Cabaret victor-victoria Cabaret victor-victoria Comincia tutto nel 2000, quando Doris, chiamiamola così, aveva 26 anni. Che cosa l’abbia spinta ad assumere l’identità del fratello non sappiamo. Fug¬giva da qualcosa, da qualcuno? Stava a disagio in quei panni femminili, e maga¬ri non ha mai avuto il coraggio di dirlo, di dirselo? In sottofondo, ancora le parole di Battiato: «Non servono tranquillanti o terapie. Ci vuole un’altra vita». Un giorno Doris vede in casa una carta di identità del fratello. Se ne imposses¬sa, cambia la foto, in fondo hanno quasi la stessa età. E poi lui sta in Puglia, si dice Doris; chi si accorgerà mai dello scam¬bio di identità? Funziona. Funziona an¬che quando va a fare un colloquio di la¬voro. Poi, un bel giorno, un banale con¬trollo. C’è una multa intestata al fratello. È una multa non pagata. Sembra niente. E invece si innesca uno di quei meccani¬smi perversi in fondo ai quali ci sono due carabinieri. «Usurpazione di identi¬tà», è il titolo del reato. Il fratello, in Pu¬glia, cade dalle nuvole. Doris piange e si dispera. «Non dite niente, non fate il mio nome, non mi rovinate», supplica i carabinieri. Il finale non c’è. Ciascuno se lo imma¬gini come vuole. Ma fate in modo che non faccia troppo male a Doris.