Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 17 Sabato calendario

E ORA PENSIAMO ALLA TERRA


[Felix Baumgartner]

L’uomo caduto sulla Terra parla veloce, non ride quasi mai e adesso vuoi restare un po’ da solo. Venir giù dalla stratosfera come un sasso battendo ogni record ti fa passare alla storia, ispira bambini in tutto il mondo ed emoziona un bel numero di grandi. Ma per un po’ devi dimenticarti chi sei davvero, la tua vita di tutti i giorni, la libertà. Felix Baumgartner, l’uomo caduto sulla Terra, vorrebbe per un attimo fare un altro salto, all’indietro: tornare a essere quel piccolo che si rigirava tra le mani un oggetto da niente, che gli ha cambiato la vita. «Avevo 4 o 5 anni. Portavo continuamente con me questa moneta che ritraeva Neil Armstrong, il primo uomo a metter piede sulla Luna. Lui, molto probabilmente, è la persona che mi ha ispirato di più e che ha permesso che tutto questo succedesse. Io sono nato nel 1969, Fanno in cui insieme ad Aldrin e Collins compì l’impresa. Da bambino restavo a occhi sbarrati davanti alla scena: lui che usciva dalla navicella, faceva quel che doveva e poi ripartiva. Una visione incredibile. Il mio desiderio divenne subito quello di andare sulla Luna. Ovviamente si capiva che non lo potevo fare e infatti non l’ho potuto fare... Ma una sera, un anno fa (Neil Armstrong è morto nell’agosto scorso; ndr), ho avuto l’opportunità di cenare con lui, nell’Hangar 7 della Red Bull a Salisburgo. Un’emozione pazzesca: da piccolo osservi da lontano questa persona, ti sembra irraggiungibile per ciò che ha fatto e per quando l’ha fatto, e poi succede che sei a un tavolo con lui: un momento unico».
Sulla Luna no, ma nei cieli è andato parecchio. S’è buttato dai grattacieli, è volato sul Canale della Manica, si è lanciato dal Cristo Redentore di Rio. Da dove nasce questa passione?
«Non ne ho la più pallida idea, non mi ha spinto nessuno. Mio padre poi, figurarsi: era prudentissimo, non gli interessavano lo sport o l’attività fisica. E i figli non li ha proprio sollecitati, tant’è vero che mio fratello fa il cuoco... Ma ho sempre avuto il desiderio di guardare il mondo dall’alto. Però, da ragazzo, non potevo volare o fare paracadutismo. L’unica era salire sugli alberi e io, dalla punta degli alberi, guardavo giù e stavo bene. Ci sono un sacco di foto, a casa, di me in cima a una pianta. Quando ho scoperto lo sky-diving, che mi sembrava il modo più economico per provare la sensazione di volare, l’ho abbracciato. E poi ho preso la licenza per pilotare gli elicotteri: volevo stare in cielo il più possibile».
Che studente era?
«Interessato soprattutto allo sport. Non amavo la matematica e roba simile. A me piace la natura e voglio vivere all’aperto. Stare seduto a un banco, chiuso in un edificio per tante ore, non faceva per me. Ma non funziona in altro modo: a scuola ci devi andare e stare. Non ero né super intelligente né super scarso: voti medi, facevo il mio ma non eccellevo, non ci ho mai messo la spinta che serviva».
Avrebbe affrontato la sfida di lanciarsi da oltre 39 km di altitudine senza tanta gente a guardarla?
«È stata la mia passione per tutti questi anni, interessava me. Non avevo idea di cosa un desiderio simile potesse diventare. Ma mi piaceva: dovevo imparare tutto da zero, ascoltare i tecnici, sviluppare le mie conoscenze. È stato un lungo percorso di crescita. Ho apprezzato il fatto che il mondo intero mi osservasse. Ma se non mi avesse visto nessuno non sarebbe cambiato granché».
Che emozioni ha provato staccando i piedi dalla navicella?
«Per mesi e mesi ti svegli e vai a dormire con questo pensiero in testa, ci passi quasi ogni secondo. Poi arriva il momento in cui succede tutto. Dopo gli alti e bassi, i guai, serve un sacco di energia. Non solo per me ma per tutto il team. Giorni prima si era rotto un pallone aerostatico che faceva salire la capsula. Ne era rimasto solo uno e, dentro di me, dicevo: se oggi non ce la facciamo deve passare un altro anno e serviranno tanti sforzi per far ripartire il progetto. Così, quando quel giorno i miei piedi hanno toccato terra, ero l’uomo più felice del mondo».
Cosa le ha insegnato star là in alto?
«Ogni volta che sei ad altitudini elevate ti senti più fragile. Hai una prospettiva differente. E, come successo agli astronauti, lassù diventi umile e capisci come la Terra vada mantenuta in salute per i prossimi duemila anni almeno».
Qualcuno dice che dovrebbe candidarsi per diventare il primo ad andare su Marte.
«Che cavolata! Un sacco di gente parla di andare su Marte dicendo che sarebbe importante per capirne di più riguardo la Terra. Non ha senso: sul nostro pianeta ne sappiamo già abbastanza ma, nonostante sia così fragile, continuiamo a trattarlo molto male. Spendiamo un mucchio di soldi sapendo già che su Marte non andremo, che è troppo lontano. Non ha senso. E sono soldi dei contribuenti, no? Abbiamo fatto già molti danni qui, dovremmo curare il nostro, di mondo».
Ha annunciato l’addio agli sport estremi. Piloterà elicotteri e si dedicherà al soccorso alpino. Ma dopo una vita così, ci si può adattare a un’esistenza "normale"?
«Guardate che volare con gli elicotteri è una bella sfida, e andar su in montagna in giorni come questo (punta lo sguardo fuori dalla finestra, il cielo a Salisburgo è grigio e pieno di nebbia) non è mica una passeggiata. La gente si fa male quando il meteo è brutto, non se c’è il sole. Volare vicino a una montagna e soccorrere un ferito è impegnativo e difficile. In fondo è ciò che cerco, aiutare le persone. Per un sacco di tempo ho messo a rischio la mia vita e tanti hanno lavorato per me. Adesso metto a disposizione il mio impegno per aiutare altri che rischiano».
E questa fama improvvisa l’ha condizionata?
«Nel mio ambiente sono conosciuto da un po’. Adesso tutto viaggia a un livello più alto ed è un grande onore, ma non ti impressiona più di tanto. A 43 anni non è così travolgente, se ne avessi 18 sarebbe diverso. Il giorno prima non sei nessuno, quello dopo una celebrità planetaria: potrebbe darti alla testa. Ma ho la mia famiglia, ho avuto genitori tranquilli e umili. Tengo i piedi per terra. Non è facile nel mio lavoro essere con i piedi per terra, ma lo sono... Certo, giorni fa sono uscito dall’hotel di New York alle 4 del mattino e c’era gente fuori ad aspettarmi. Non avere più privacy è un peso».
Lo rifarebbe?
«Il lancio? Nooo! Non c’è niente da guadagnare, dopo che hai fatto i record, sei andato oltre la velocità del suono, non c’è proprio motivo. Metteresti solo in pericolo la tua vita e non è detto che essendo andato tutto liscio una volta succeda ancora. E io non ripeto mai le mie imprese. Quando è fatta è fatta».
Siamo ai saluti. Addetti stampa e uomini di marketing fanno muro. Ma – non si sa come – una vecchietta si fa largo, gli arriva davanti, gli dice qualcosa e lo riempie di baci. Felix resta un po’ lì, tra lo stupito e il divertito. Guardandosi intorno dice: «Mi ha riempito di rossetto, eh?». Cerca di pulirsi le guance, un po’ goffamente. E finalmente, per la prima volta in due ore, scoppia a ridere. È tornato ad essere il bambino con la moneta tra le mani.