Pietro Veronese, il Venerdì 16/11/2012, 16 novembre 2012
I NUOVI SCHIAVI
La data che impariamo sui manuali di storia è il 1807. Fu in quell’anno lontano, dopo una battaglia politica durata quasi un trentennio, che il Parlamento di Westminster votò la legge che aboliva la tratta degli schiavi, lo Slave Trade Act. In quel capitolo abbiamo anche imparato che i principi sono spesso, se non sempre, impastati con gli interessi: alla Gran Brotagna, e alla sua economia mercantile, abolire la schiavitù conveniva. Sta di fatto che all’epoca i vascelli della Royal Navy dominavano gli oceani e la tratta, attivamente combattuta, in capo a qualche anno finì.
L’ultimo Paese ad abolire ufficialmente la schiavitù è stato, nel 1980, la Mauritania. Più di centosettanta anni dopo lo Slave Trade Act. Nel frattempo erano accadute molte cose: la Guerra di Secessione americana, in cui la sconfitta degli Stati schiavisti del sud costò la vita ad oltre 600mila persone (tra di esse un presidente degli Stati Uniti). E la Dichiarazione universale dei diritti umani, entusiasticamente approvata dalle nazioni nel 1948 all’indomani di un’altra guerra devastante, la quale all’articolo 4 proclama: «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma».
Siamo giunti all’anno di grazia 2012 e scopriamo che la schiavitù non è affatto finita. Anzi, in termini assoluti, vive in stato di schiavitù un numero di umani maggiore che in qualsiasi altra epoca. Ventisette milioni di persone in tutto il mondo. Dalle cave dell’India alle tribù nomadi del Maghreb; dai marciapiedi delle nostre città alle piantagioni dell’Uzbekistan; dai bordelli di Bangkok alle manifatture semiclandestine dell’Asia; dalle fabbriche della Corea del Nord alle caserme dell’Eritrea: gli schiavi – spesso donne, molto spesso bambini – sono al lavoro.
Ventisette milioni è la cifra stimata di recente da Free the Slaves, un’associazione americana che si batte per la fine effettiva della schiavitù (www.freetheslaves.net). Anche qui, non dobbiamo perdere di vista il nesso tra principi ed interessi: gli attivisti di Free the Slaves chiedono donazioni ai loro sostenitori e fanno una stima del tempo e della somma necessari ad abolire definitivamente ogni forma di schiavitù: trent’anni – una generazione – e 11 miliardi di dollari. Ci sono tuttavia altre organizzazioni umanitarie dedite a lottare contro ogni forma di lavoro forzato – Anti-Slavery Intemational, Stop the Traffik e altre – che concordano sulla entità e vastità del fenomeno. L’Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia dell’Onu che si occupa di questi problemi, fa un altro calcolo: 20,9 milioni di individui, escludendo però dal totale le forme di lavoro coatto (che gli studiosi distinguono da quello forzato) conteggiate invece da Free the Slaves.
Nel nostro immaginario lo schiavismo è associato alle navi dei negrieri, agli uomini e alle donne razziati nell’interno dell’Africa, trascinati in catene fino alla costa, ammassati nelle stive e trasportati come bestiame verso le piantagioni delle Indie occidentali e le colonie americane per essere comprati e venduti sulle piazze dei mercati. Un’immagine remota, consegnata al cinema e alla letteratura, finita per sempre. Oggi le forme di schiavitù sono spesso invisibili. Diffuse, ma nascoste, perché ufficialmente proibite; illegali, e dunque confinate nell’ombra del crimine organizzato; vergognose e per questo negate anche da chi ne è vittima. Come ha detto il presidente americano Barack Obama appena due mesi fa, in settembre, «il traffico di essere umani è anche qui, negli Stati Uniti». E ha spiegato: «È il migrante che non riesce a pagare il debito al trafficante. L’uomo attirato qui con la promessa di un lavoro e poi privato dei suoi documenti e forzato a faticare per ore infinite in una cucina. La ragazza adolescente picchiata e costretta a battere la strada».
La cifra di 27 milioni di schiavi può essere vista anche in una prospettiva diversa, più incoraggiante. È vero, è la più alta mai stimata nella storia, ma è anche la più infima rispetto alla popolazione totale della Terra. In termini percentuali, insomma, possiamo affermare che lo schiavismo non è mai stato così marginale tra gli umani. Né mai altrettanto attivamente combattuto: è illegale ovunque nel mondo; l’Interpol e molte altre organizzazioni anticrimine lo contrastano attivamente; gli attivisti sono pronti a denunciare ogni caso documentato in cui un’industria occidentale fa ricorso a forme di lavoro forzato o coatto in qualche Paese straniero, mobilitando i consumatori contro i suoi prodotti (si pensi al recente scandalo della cinese Foxconn, tornitrice della Apple). E gli Stati, almeno quelli democratici e meno corrotti, per quello che possono, vigilano. Per citare ancora il presidente Obama: «L’anno scorso abbiamo incriminato un numero record di trafficanti di esseri umani. Li mettiamo dove devono stare: dietro le sbarre».
È legittimo perciò sperare che la schiavitù, in ogni sua forma moderna, diventi un fenomeno sempre più residuale, fino a scomparire del tutto. Questa almeno è la convinzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Come ha detto una sua funzionaria alla Bbc, «è sempre più difficile per gli Stati e per le aziende farla franca quando ricorrono al lavoro forzato. C’è motivo di essere ottimisti. Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento impetuoso e se si raggiunge una massa critica di leader disposti ad agire, allora lo si può sradicare».
Nel frattempo, imprenditori senza scrupoli e criminali con ancora meno scrupoli continuano ad arricchirsi sfruttando il lavoro di individui deboli ridotti in servitù. Il primo motivo è la paura e la povertà: la prostituta a cui i trafficanti hanno sequestrato il passaporto, il bambino che raccoglie le foglie di tabacco in cambio di un piatto di polenta, sono persone spaventate a morte. Se resistono, se si ribellano, la loro vita è in gioco; spesso anche quella dei loro famigliari, la cui sopravvivenza dipende da loro.
Il secondo motivo è culturale. Le persone ridotte in schiavitù vengono da contesti isolati e arretrati, dove quella del lavoro servile è una tradizione di generazioni; sono inconsapevoli dei propri diritti e ancor meno saprebbero a chi fare ricorso perché vengano rispettati. Qui entrano in gioco le organizzazioni umanitarie: diffondendo consapevolezza, fornendo un’educazione embrionale, costruendo alternative. Il loro ruolo non è tuttavia esente da paradossi e da pericoli. Alcuni anni fa un organismo protestante degli Usa lanciò una campagna contro la schiavitù in Sudan, raccogliendo fondi – così diceva per «comprare» centinaia di schiavi, pagandone l’affrancamento. Ma qualcuno si mise in testa di studiare i filmati di queste operazioni, scoprendo che i presunti «schiavi» erano sempre gli stessi. E i soldi finivano nelle tasche sbagliate. L’emancipazione vera delle vittime della moderna tratta è un’operazione lunga, delicata, nemica delle telecamere.
È impossibile calcolare con certezza quante siano state nei secoli le vittime africane della tratta degli schiavi. Gli storici ci hanno provato, proiettando sull’arco di circa tre secoli – tanto durò il traffico legale di esseri umani – i dati forniti dalle liste di carico delle navi negriere.
La stima che ne risulta è di dodici milioni e mezzo di persone (meno della metà, dunque, dei 27 milioni attuali). Quegli uomini e quelle donne, quando sopravvivevano alle pene della traversata, venivano messi a coltivare la canna da zucchero nelle isole caraibiche e il cotone nelle Americhe. Oggi siamo abituati a vedere l’enorme ricchezza prodotta dall’elettronica di consumo ed altre industrie di punta in California, in Corea, in Cina.
È difficile per noi immaginare che ci fu un lungo tempo, durato secoli, nel quale la ricchezza dell’Occidente veniva da quelle esotiche produzioni agricole. I grandi patrimoni europei, le dimore patrizie della Londra o della Parigi settecentesche venivano create nelle piantagioni di Haiti, della Giamaica, della Guadalupa. Il lavoro degli schiavi diventava opere d’arte nei saloni aristocratici, ori, stucchi, palazzi. È la nostra storia, il retaggio di cui siamo fatti: dal lavoro degli schiavi non ci emanciperemo mai.