Bernardo Valli, la Repubblica 21/11/2012, 21 novembre 2012
LA PETITE FRANCE
Lunedì mattina, dodici ore prima dell’annuncio ufficiale avvenuto a tarda sera, François Hollande ha saputo del declassamento della Francia deciso da Moody’s Investors Service. L’agenzia di rating aveva già lanciato un avvertimento il mese scorso. Non era dunque una vera sorpresa. I suoi esperti avevano dato come imminente la cancellazione di una delle tre A che mettevano la situazione economico— finanziaria francese allo stesso livello di quella tedesca. Dall’eccellente annotazione AAA, Parigi sarebbe presto scesa a un AA1, vale a dire a uno scalino più basso di Berlino, principale capitale dell’eurozona, pur restando comunque sette scalini sopra Roma, quotata Baa2 e terza capitale della suddetta area monetaria. L’annuncio è avvenuto che era appena notte, in tempo per affrontare l’indomani mattina i mercati. La notizia non ha lasciato indifferenti le diciassette capitali della moneta unica. Berlino — Parigi, l’asse guida dell’Europa, da un pezzo non più tanto rigido è vero, era ufficialmente zoppo. Era noto, scontato.
Ma quando l’annuncia un arbitro discusso e temuto, detestato e in definitiva ascoltato, lo squilibrio assume un diverso valore. Decidere una classifica tra nazioni valutando meriti e demeriti economici e finanziari sembra puerile. Nella civiltà delle immagini e delle cifre, anche le nazioni, gli Stati, i governi, ed anche le banche, le fabbriche, le società, ricevono voti come gli scolari, in base alle loro supposte capacità. E quindi si formano classifiche, inevitabili fonti di frustrazioni, di gelosie, di drammi, di tragedie. Lunedì mattina il settimo
presidente della Quinta Repubblica deve essersi infastidito, anche se non del tutto sorpreso, nell’apprendere che la Francia non era più al vertice dell’eurozona, accanto alla Germania, e che era stata trasferita a un girone sottostante. Un girone tuttavia privilegiato rispetto a quelli più bassi, riservati ai paesi del Sud.
Quest’ultima è una magra consolazione. Alla Francia non piace essere seconda. Soprattutto dietro all’alleata Germania. Persino in California si è pensato a questo. Un banchiere di Palo Alto, di nome Axel Merk, ha detto come tanti altri nel mondo: «Ai francesi non andrà giù facilmente,
sono orgogliosi». Il verdetto negativo di Moody’s appare in realtà un severo colpo per il presidente e il suo governo in carica da poco più di sei mesi. La perdita della terza A può infatti sembrare una conferma alla copertina dell’Economistche ha appena presentato la Francia di Hollande come una bomba a orologeria nel cuore dell’Europa. Ed anche una conferma alle insistenti
accuse di inefficienza lanciate dai giornali parigini di sinistra e di destra.
François Hollande sapeva che il declassamento era nell’aria. Non era del resto neppure qualcosa di inedito, poiché in gennaio, quando era ancora presidente Nicolas Sarkozy, la Francia fu degradata da Standard & Poor’s. La quale, insieme a Moody’s e a Fitch, è una delle tre
importanti agenzie di rating. Per ora la Fitch (della quale l’uomo d’affari francese Marc Ladreit de Lacharrière detiene il 50 %) è l’unica a lasciare intatte le tre A della Francia, ma ha annunciato che sono pericolanti. Se si arrivasse a un terzo declassamento la situazione sarebbe sgradevole.
I mercati non hanno dato tuttavia retta a Moody’s. Come in gennaio non avevano tenuto
conto della decisione di Standard &Poor’s. Dopo avere informato Hollande dell’imminente sgradita sentenza, Pierre Moscovici, il ministro dell’economia e delle finanze, ha atteso non senza apprensione il comportamento dei mercati. E con grande sollievo, nella prima mattina, ha constatato che gli operatori continuavano a finanziare il debito francese, come se nulla fosse accaduto. I tassi sono saliti dello 0,01 per cento, sono passati dal 2,07 a circa il 2,09; lo spread con i Bund tedeschi è passato da 72 a 74 punti base. Ci sono stati insomma movimenti del tutto trascurabili. Dall’ingresso di François Hollande all’Eliseo, nella primavera scorsa, i tassi sono in verità sempre scesi. Moody’s non ha cambiato la tendenza. L’impressione è che le agenzie di rating non spaventino più.
Lo spread può tuttavia cambiare. I mercati non più intimiditi dalla stabilità politica francese e dall’efficienza delle strutture amministrative della Quinta Repubblica, assai più solide, credibili di quelle dell’Europa meridionale, potrebbero diventare aggressivi. Le motivazioni di Moody’s non sono campate per aria. I problemi della Francia sono noti. La competitività delle imprese continua a peggiorare: lo dimostrano i dieci anni consecutivi di deficit commerciale, settanta miliardi nel 2011. Il debito pubblico va oltre i novanta miliardi. E non c’è paese che spenda
di più per le prestazioni sociali: cinquecento undici miliardi nel 2011. Cifra che rappresenta la metà della spesa pubblica: la più alta d’Europa, 57% del Pil. La flessibilità del mercato del lavoro è insufficiente. E la politica di Hollande, secondo Moody’s non sembra in grado di affrontare questi problemi.
Il presidente socialista pensava, sperava che l’agenzia di rating non avrebbe tolto la terza A alla Francia, dopo la conferenza stampa in cui ha annunciato tagli alla spesa pubblica di sessanta miliardi in cinque anni, venti miliardi di sgravi alle aziende per migliorare la loro competitività, e ha ribadito l’impegno a riportare al 3 per cento il deficit. Questi rimedi da cavallo non hanno evidentemente convinto.
Il responsabile dell’economia,
Pierre Moscovici, ha cercato di sdrammatizzare. Ha detto che la fiducia globale vero l’economia francese non è stata intaccata. Bisogna accogliere con calma la decisione di Moody’s, anche perché riguarda la passata gestione, vale a dire la presidenza di Nicolas Sarkozy, il presidente di centro destra sconfitto alle elezioni di primavera. Sempre Moscovici ha aggiunto che «la Francia è un gradino sotto la Germania, ma sette sopra l’Italia e otto sopra la Spagna ». E può contare sulla qualità del suo credito, come hanno dimostrato i mercati nelle ultime ore. L’opposizione di centro destra accusa invece il governo di non avere varato le riforme necessarie.
Nelle sentenze delle agenzie di rating, e in particolare nelle critiche del settimanale
Economist,
intelligente espressione del liberismo d’Oltremanica, si notano le tradizionali accuse mosse alla Francia dirigista. Non solo al colbertismo, di cui sono rimaste forti tracce nonostante le riforme e la modernizzazione della amministrazione. Gli americani inorridiscono quando vedono le cifre dedicate alle prestazioni sociali (511 miliardi di euro), le quali rappresentano la metà della spesa pubblica generale (57% del Pil). Ma queste cifre sono elementi dell’«eccezione francese», esprimono la potente e folta amministrazione, e quindi il ruolo di uno Stato efficiente e quasi onnipresente, ed anche uno Stato sociale esteso e difficile da smantellare, perché rappresenta la République, espressione che non indica soltanto un’istituzione. Per quelli che de Gaulle chiamava
con sufficienza «les anglosaxons » questa Francia è un’isola obsoleta. Ma anche tenace e riluttante a demolire le conquiste sociali che risultano sempre più inadeguate al mondo globalizzato.
Una Francia declassata dalle agenzie di rating ma che per ora intimidisce i mercati. Fino a quando Asterix terrà a bada le nuove legioni romane? Neppure la destra, oscillante tra dirigismo e liberismo, ha osato smantellare seriamente lo stato sociale. Per la sinistra, appena arrivata al potere, la strada tracciata dalle agenzie di rating con le loro critiche è ancora più impervia. Non è facile neppure per un socialdemocratico, con tendenze liberali, quale è François Hollande, demolire «l’eccezione francese».