Francesco Merlo, la Repubblica 21/11/2012, 21 novembre 2012
TROPPA CULTURA FA MALE ALLA CULTURA?
C’È TROPPA cultura. È diventato insopportabile il disagio dell’abbondanza, l’eccesso «di prosperità costruita sul debito ». Ci sono troppe mostre che non hanno nulla di nuovo da mostrare, si pubblicano troppi libri e sarebbe molto meglio per tutti se la metà dei teatri e dei musei scomparisse, se alcuni archivi venissero raggruppati e i teatri per concerti privatizzati: «2500 anziché 5000 musei in Germania, 500 anziché 1000 in Svizzera, 400 anziché 800 in Austria…. 70 teatri pubblici e cittadini anziché 140 in Germania, 700 anziché 1300 biblioteche in Svizzera».
Mai era stato sferrato un così duro attacco al cuore del Kulturstaat, al famoso modello tedesco, e sarebbe molto meglio dire europeo, al Monopolio statale della cultura umanista e giacobina: molto danaro pubblico e nessun mercato libero. Sarebbe insomma vicinissimo al definitivo fallimento lo Stato come educatore illuminista e come finanziatore della celebre Zivilisation che i soldi pubblici rendono sempre meno Kultur e dunque sempre più pappa convenzionale.
Drammaticamente onerosa per il sistema fiscale già stremato, ma anche banale, solo passato e niente futuro, la nuova decadenza, l’ultimo tramonto dell’Occidente.
Dunque secondo i quattro autori di questo
Kulturinfarkt,
un robusto pamphlet di grande successo in Germania, la smisurata offerta e il monopolio statale stanno portando le istituzioni culturali verso il crack non solo economico. Hanno infatti generato conformismo, depresso la creatività, «addomesticato le avanguardie», messo sotto controllo la libertà e la modernità, disarmato la cattiveria contro il potere che viene persino esibita «anche in politica estera» con il compiacimento del potere stesso.
In sedici anni è quasi raddoppiato il numero delle compagnie di prosa, di musica, dei centri di studio e delle case editrici producendo molti più artisti che arte, più scrittori che libri… Ma il pubblico è diminuito, sia pure di poco, passando da quasi 23 milioni a quasi ventuno milioni, spalmati però nelle varie proposte. E poiché «ogni allestimento scenico viene utilizzato una sola volta, la conclusione è che a ogni singolo spettatore, sempre lo stesso, vanno sempre più risorse di produzione». Le cifre diventano astronomiche «ma i prezzi rimangono convenienti perché si vogliono mantenere basse le soglie di accesso». Ogni biglietto per il teatro dell’Opera di Zurigo, se non ci fosse un finanziamento annuale di 55 milioni, «dovrebbe costare 150 euro in più». E ci sono gli sconti, i “biglietti famiglia”, «dal 2009 i giovani al di sotto dei 26 anni entrano gratis nei musei della Francia e così pure nel Regno Unito, per non parlare dei festival gratuiti in Svizzera e in Francia». Eppure i prezzi per i concerti pop sono aumentati di molto, «ogni teenager sborsa almeno 50 euro» e gli spettacoli privati estivi all’aperto «così popolari in Germania, Austria e in Svizzera costano fino a 100 euro a persona e fanno il tutto esaurito mentre il museo accanto, il cui biglietto costa 5 euro, rimane vuoto».
Insomma si fa demagogia, retorica sociale, circenseria, si getta fumo negli occhi e intanto si crea una vera e propria “bolla letteraria”: «Nel 2011 ci sono stati in Germania 778 premi letterari. Ne vanno aggiunti 881 nell’ambito dei media e della pubblicistica».
Sono tre premi al giorno, anche di cucina, tutti sovvenzionati dallo Stato alla parola cultura «per sostenere la prestigiosa opera di scrittori ed editori di libri: 24mila novità editoriali all’anno di letteratura dilettantesca». Ma le vendite non sono mai sufficienti e il prodotto è mediocre perché è mediocre l’idea che possano venire fuori i geni di stato, i menestrelli finanziati, i poeti ministeriali: un residuo di terzo internazionalismo e di fascismo, roba da stato platonico. E chissà come si arrabbierebbero Leopardi o Rimbaud se sapessero che la loro eversione e il loro autismo, la loro rabbia contro il mondo è finita sugli autobus, ad arredare il muro delle stazioni o è diventata tarantella di piazza.
L’aiuto statale espande e perpetua anche un falso mercato delle arti. Il sostegno agli artisti è sussidio sociale, assistenza, elemosina sotto le mentite spoglie della promozione: a Berlino il 6 per cento degli artisti sopravvive senza percepire alcun reddito, il 31 per cento guadagna meno di 12mila euro all’anno, il 78 per cento di coloro che si definiscono artisti di professione vive al di sotto delle soglie di povertà. Solo il 7 per cento è inserito in un circuito produttivo e il 10 per cento ha una galleria che espone le sue opere. «Il genio artistico vuole recare gioia – scriveva Nietzsche – ma quando si trova a un livello molto alto gli manca facilmente chi ne goda: offre cibi che nessuno vuole. Ciò attribuisce all’artista un pathos talvolta ridicolo e commovente insieme; perché in fondo non ha alcun diritto di costringere gli
uomini al godimento». Poi ci sono gli artisti dilettanti. Il 70 per cento dei francesi si occupa di fotografia, il 27 per cento gira filmati. Il censimento ha contato in Francia più artisti che agricoltori. Ma la grande assente da questa vendemmia d’arte è ovviamente l’arte. A Berlino trovi il vino, il cibo, i libri e gli artisti stralunati, le cantate corali e la simpatia in strada, ma non l’arte che è il contrario di tutto questo, un atto solitario, una cattiva azione contro qualcuno o contro tutti, una coltellata al mondo, il mezzo espressivo che porta fuori la propria disperazione come scriveva Liu Hsin-wu, uno degli scrittori più amati del famoso Sessantotto: «Si fa poesia o arte quando si sta male». Mentre, aggiungeva, «quando si sta bene si fa la rivoluzione di piazza
» o in subordine il corteo di protesta, il concerto, la cantata, la festa, il festival e la pubblica pernacchia.
Le conseguenze, semplifica Cesare De Michelis (Marsilio) introducendo l’edizione italiana, sono «i musei non visitati, i teatri vuoti, i libri non letti …». Anche il sottotitolo italiano, “Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura”, è più radicale e sbrigativo di quello tedesco: «Troppo di tutto e ovunque le stesse cose». Purtroppo le parole in Italia non appartengono infatti allo stesso mondo. Il Kulturstaat italiano significa irragionevole incuria del patrimonio che l’Europa ci invidia, il degrado dei siti archeologici, le clientele al posto delle competenze, un’inefficienza che viene da lontano anche se, certo, negli ultimi venti anni
è diventata disprezzo governativo verso la cultura ridotta con faciloneria da cummenda allo slogan delle tre “i” (impresa, inglese, internet), perché diceva Tremonti «con la cultura non si imbottiscono i panini», e dunque maltrattamento sistematico nelle aule dove si costruisce il futuro e nelle vestigia dove si conserva il passato.
E in Italia lo Stato finanzia la festa del pistacchio, il premio zucca d’argento, il pittoresco delle sagre paesane addottorate con cattedre universitarie. La cultura assistita in Italia è la marchetta, che è più antieconomica del pizzo mafioso. E “marchette e zoccole” è il binomio che ha affossato la Rai, che è ancora la prima industria culturale italiana. Ecco dunque che la cultura finanziata col danaro pubblico da noi significa un’altra cosa ancora perché il modello del Kulturstaat all’italiana rimanda più alla pirateria dell’isola della Tortuga che al disagio dell’abbondanza della Germania della Merkel: noi sovraproduciamo parassiti, loro cultura di massa.
Provate adesso a immaginare come diventerebbe la Valle dei Templi se fosse affidata alla Humboldt-Universität
di Berlino o il Maxxi di Roma se fosse gestito dalla Staatsgalerie di Stoccarda che, disegnata da James Stirling, è il paradigma di tutti i musei che hanno l’ambizione di esser anche un centro civico, una moderna piazza di attrazione urbana. E Pompei? Quale meraviglia diventerebbe nella mani ricostruttrici della municipalità di Dresda, la città che subì tre bombardamenti, un fuoco peggiore di quello del Vesuvio? Finanziata dalle tasse, la bellezza di Dresda è di nuovo “superba” al punto che se ne infischia dell’Unesco che nel 2007 le tolse il riconoscimento di patrimonio dell’umanità per il ponte sull’Elba, quattro corsie, approvato con due referendum popo-lari, una meraviglia di modernità e di paesaggio futurista.