Stefano Montefiori, Sette 16/11/2012, 16 novembre 2012
IO, MONTI E QUELLE BOZZE SPEDITE PER E-MAIL
[Sylvie Goulard racconta come è nata La democrazia in Europa, una riflessione scritta a quattro mani. «L’idea è nata quando la crisi era agli inizi e il “professore” era ancora lontano da Palazzo Chigi»] –
Dice Sylvie Goulard che la sua fibra di europeista le è forse venuta da un «meraviglioso scivolo del parco Sempione, a Milano, scoperto da bambina. Capire che si può trovare il meglio in casa d’altri è già fare un passo verso l’Europa, divertendosi». Il suo europeo preferito nella letteratura è Fabrizio del Dongo della Certosa di Parma, «il milanese che si prende per Napoleone ma sa amare come un italiano». Tra gli europei reali non vuole scegliere, ma durante la nostra conversazione, in un caffè del VII arrondissement, cita Alexis de Tocqueville, Jean Monnet, Paul-Henri Spaak, Juergen Habermas, e molti italiani: da Tommaso Padoa-Schioppa a Romano Prodi (è stata sua consigliera politica dal 2001 al 2004), da Mario Monti all’Italo Calvino del Visconte dimezzato: «Calvino mi viene spesso in mente quando qualcuno propone di dividerci in Europa del Nord e del Sud, con questa ridicola pretesa manichea di separare il buono dal cattivo».
Signora Goulard, lei è una rara francese capace di lasciare il Quai d’Orsay per dedicarsi all’Europa. Germanista e amante dell’Italia, deputata centrista a Bruxelles da tre anni, ha appena scritto a quattro mani un libro con il presidente del Consiglio italiano Mario Monti. Chi ha avuto l’idea?
«Pensavamo a un libro da tempo, quando io e Monti lavoravamo insieme alla Commissione europea. Ma ci siamo finalmente decisi all’inizio della crisi dell’euro. Ci è sembrato giusto ragionare in senso un po’ più ampio, al di là delle misure tecniche che stavano prendendo il sopravvento».
E dire che Mario Monti è un premier, appunto, “tecnico”.
«Sì, il vostro è un governo tecnico, ma Monti è sempre stato politico, nel senso nobile del termine. Per me Monti è un uomo di alto profilo, lontano dagli intrighi dei politicanti. E infatti La democrazia in Europa (edito da Rizzoli in Italia e Flammarion in Francia) è una riflessione sul nostro avvenire di europei».
Come avete fatto, in pratica, a scriverlo?
«Abbiamo cominciato prima che Monti diventasse premier, allora aveva più tempo. Non volevamo fare una raccolta di testi, né un gioco di domande e risposte. A mano a mano che uno di noi scriveva qualcosa mandava all’altro le bozze via e-mail».
In che lingua?
«Abbiamo usato il suo ottimo francese e il mio pessimo italiano… Ci sono molti riferimenti a testi tedeschi, italiani, inglesi. Ma lei mi pone una domanda che ormai a Bruxelles non si fa più, e uno degli obiettivi di questo libro è anche fare passare il messaggio che la lingua non è più un ostacolo, che a tutti i livelli della società è possibile cavarsela e andare avanti, maneggiando un po’ le lingue. In ogni lingua si pensa in modo diverso, è un bell’allenamento per fare lo sforzo di mettersi nei panni dell’altro. Speriamo di avere scritto un libro né francese né italiano ma europeo».
Jacques Delors è scettico su una totale cessione di sovranità all’Europa, mentre la cancelliera Angela Merkel spinge per un vero federalismo europeo. Qual è la vostra proposta?
«Siamo convinti che ci siano più opzioni possibili. Ma non possiamo continuamente criticare l’Europa comunitaria in nome della democrazia parlamentare di Locke e Montesquieu: i Trattati di Roma ubbidivano a principi differenti. E poi, quale federalismo? In Questa Europa è in crisi (Laterza, 2012), Habermas conia l’espressione “federalismo degli esecutivi” per indicare il processo con il quale il Consiglio europeo si è attribuito poteri sempre più estesi senza rendere conto agli elettori europei, e mettendo in atto un “modello di dominazione postdemocratico”».
E quindi?
«Noi diciamo agli europei “siate adulti”. Ora siamo alla metà del guado tra Europa comunitaria e futuro federale, possiamo scegliere, ma in ogni caso a qualcosa bisogna rinunciare. I singoli Stati non possono mantenere la loro sovranità e allo stesso tempo pretendere anche i vantaggi di un’unione».
Non è quello che vuole la Francia di Hollande?
«I francesi si sono fermati intellettualmente al 1962, sperano di avere un’Europa forte con delle istituzioni deboli. La loro scelta è sempre stata quella inter-governativa, cioè andare avanti grazie ad accordi tra governi. Io ho lasciato il ministero degli Affari esteri proprio per questo motivo, credo che sia un’aberrazione. Se la Francia non cambia la sua posizione è destinata a perdere influenza nel mondo, e purtroppo è quel che sta accadendo. Tommaso Padoa-Schioppa diceva che l’Europa deve avere poteri magari limitati, ma forti».
Lei e Monti siete favorevoli agli Stati Uniti d’Europa?
«Nelle sue memorie, Jean Monnet dice che l’Europa comunitaria è solo una tappa del processo “verso degli Stati Uniti d’Europa”, non “verso gli Stati Uniti d’Europa”: cioè, è impossibile prendere il modello americano e applicarlo alla realtà europea. Mi fanno un po’ sorridere quelli che si dichiarano favorevoli al federalismo europeo. Sì, ma quale? Bisognerà inventarne uno nuovo».
Daniel Cohn-Bendit e Guy Verhofstadt hanno scritto un manifesto, Per l’Europa, in cui propongono un’Europa unita, con il Consiglio europeo trasformato in una specie di Senato degli Stati Uniti d’America. Che ne pensa?
«Ho una grande stima per Cohn-Bendit e Verhofstadt, assieme a loro e Isabelle Durant abbiamo fondato il Gruppo Spinelli per l’Europa. Io e Monti da una parte, e loro dall’altra, abbiamo scritto i nostri libri in parallelo, e alla fine il risultato rispecchia le rispettive personalità: il loro è un manifesto, scritto con foga e talento, noi abbiamo scelto un altro stile…».
Nel vostro libro parlate molto di guardare all’Europa per riconciliare le generazioni.
«La prima cosa che mi ha colpito di Monti negli anni Novanta era il fatto che ripeteva spesso come l’Europa dovesse offrire garanzie alle giovani generazioni. Nella mia esperienza alla Commissione con Prodi e come docente al Consiglio d’Europa di Bruges mi sono resa conto di come molti giovani siano straordinariamente competenti, anche più di persone che sono dentro il sistema da molto. Allo stesso tempo, non possiamo permetterci di perdere l’esperienza di persone che oggi sono costrette ad andare in pensione troppo presto».
Chi dovrà andare a Stoccolma a ritirare il Nobel per la Pace vinto dall’Unione europea?
«Barroso, il presidente della Commissione, l’unica istituzione responsabile davanti al Parlamento europeo. L’idea di mandare i 27 capi di Stato mi sembra una follia, contraria allo spirito del premio che era quello di premiare il processo di integrazione europea, non i singoli Stati».
Qual è il suo ricordo degli anni con Prodi?
«Mi è piaciuto moltissimo lavorare con lui, ho cominciato appena prima del catastrofico vertice di Nizza presieduto dalla Francia, essere francese in quei giorni non era un grande biglietto da visita europeo… Prodi è un uomo di grande competenza, impegno europeista e anche humour. Come Monti e anche Draghi, ognuno in modo diverso, con uno stile personale».
Noi italiani siamo stati a lungo europeisti anche perché speravamo che fosse Bruxelles a salvarci.
«È vero, da voi “non perdere il treno dell’Europa” è stato un argomento molto utilizzato. Ma comunque l’Italia ha una grande tradizione di genuini europeisti, la Francia è più fredda. Io adoro il mio Paese, per carità, ma la nostra storia gloriosa non deve impedirci di aprirci agli altri con equilibrio, senza incoraggiare complessi di inferiorità o di superiorità. Certe volte è meglio perdere le guerre piuttosto che credere di averle vinte (Goulard ride, il riferimento è alla Francia della Seconda guerra mondiale… ndr). Sono d’accordo con il belga Paul-Henri Spaak e la sua battuta geniale: in Europa ci sono solo piccoli Paesi, solo che alcuni non se ne sono accorti».