Claudio Carabba, Sette 16/11/2012, 16 novembre 2012
HA 30 ANNI E TELEFONA ANCORA A CASA [È
il film, non amato dall’Academy, che riassume la poetica
del regista: caccia all’uomo, fuga, età dell’innocenza e solidarietà. Ma il sentimento dominante resta la speranza di comprensione] –
L’astronave è ferma nel bosco. La sua luce spezza il buio fitto della notte. Le due dita, lunghe e magre, si levano verso la luna alta nel cielo. Il campo col nido degli alieni assomiglia al covo maledetto dei mostri di Alien. Un piccolo “straniero” si è smarrito e cammina lentamente fra gli alberi altissimi. Le luci della città splendono lontane, come una minaccia. E molto minacciose sono le auto degli uomini, che arrivano con veloce furia. Dei poliziotti si vedono solo le gambe e i piedi aggressivi, un po’ come capitava agli squadroni brutali immaginati dal sommo Romero nella terribile Notte dei morti viventi. Per la paura, il cuore del misterioso fuggitivo sobbalza rosso come il fuoco per la prima volta. Incalzati dagli sceriffi armati, i visitatori decidono di ripartire verso più libere galassie. La loro creatura, vulnerabile forse indifesa, resterà sola sull’irritabile pianeta Terra. Comincia come un fantahorror, E.T. la favola bella inventata da Steven Spielberg trent’anni fa, nel 1982. Poi la storia, come si sa, prende un’altra piega, più rosa e commovente, puntando sulla tenera amicizia fra il bambino umano (il vispo Elliot) e lo strano essere caduto dallo spazio; alcune frasi («telefono-casa») e diverse scene madri (il simbolo è il volo in bicicletta) restano lì, fra le immagini (le parole) rampanti della storia del cinema. Dietro lo schermo della fantasia, c’è anche un affresco amaro e quasi realistico della famiglia americana, con l’intrepida madre molto sola (il marito se ne è andato via) alle prese con gli inevitabili affanni provocati dai tre figli ragazzini. E qui forse Spielberg parla di sé e di un dolore privato, il divorzio dei genitori avvenuto nel 1966, quando lui aveva vent’anni. È un particolare che può far riflettere i recensori tiepidi, che spesso hanno accusato l’immaginoso Steven di avere un’ispirazione da topo di cineteca, lontana dalla realtà. L’ha spiegato bene un amico illustre, un po’ più anziano e più venerato dalla critica, come Martin Scorsese: «Io e Steven ci guardiamo in giro e cerchiamo sempre di raccogliere i reperti dell’epoca in cui siamo vissuti. Quello che la gente ha sempre detto su di noi (ovvero che non avevamo fatto altro che vedere film e non sapevamo altro della vita) non è vero. Il mondo in cui sono cresciuto è rimasto con me e non scomparirà mai». Sognando Peter Pan. Al di là dello straordinario successo (incassi miliardari, resistenti nel corso del tempo) E.T. è importante nella carriera di Spielberg, perché riassume le vocazioni poetiche capitali. Il tema della caccia, per esempio: l’alieno è braccato dagli uomini ostili come l’autista di Duel, la romantica coppia in fuga di Sugarland Express, gli incauti nuotatori de Lo squalo; l’infanzia è vista come la stagione migliore, un’età dell’innocenza da non perdere, “l’isola che non c’è” che è bello cercare: Peter Pan non è un complesso, ma un sogno da difendere. Il sentimento dominante resta la speranza di comprensione, di una non retorica solidarietà. Fra capolavori e film sbagliati, successi miliardari e fallimenti, l’avventura di Spielberg non è affatto segnata dalla tentazione del kolossal da incasso sicuro, ma al contrario dal desiderio di scommettere sempre su diverse forme narrative (dalla novella al dramma politico, dal viaggio ai confini della realtà allo sbarco sulla spiaggia insanguinata della Normandia) tenendo come bussola e punto di riferimento la possibilità di un’ardita navigazione oltre la “nuova frontiera” dell’umanità. Quando gira E.T. Spielberg è ancora piuttosto giovane (trentasei anni) ed è già parecchio famoso: titoli come Lo squalo e I predatori dell’arca perduta, l’hanno fatto diventare miliardario. E lui ha reinvestito i soldi in film belli ma commercialmente sfortunati (l’irresistibile 1941), e specialmente ponendosi insieme all’amico Lucas come produttore indipendente, capace di spezzare la dittatura delle antiche Majors. Grazie, box office. La fantascienza è una delle sue passioni. Steven, che ha già sognato “incontri ravvicinati del terzo tipo” (1977), smorza i toni misti e inventa il nuovo personaggio. Per realizzarlo chiama il favoloso Rambaldi, il mago italiano che ha già costruito il nuovo King Kong e il polpo assassino di Alien. Ricorda il regista: «Ho sempre visto il piccolo alieno come una figura paterna, un uomo-bambino, anzi un vecchio-bambino. Lo dissi al “burattinaio” Carlo Rambaldi: l’aspetto di E.T. deve essere infantile e vecchio alle stesso tempo. E lui lo ha fatto splendidamente con il suo pupazzo». E infatti agli Oscar di quell’anno, Spielberg (candidato al miglior film e alla miglior regia) non vinse nulla, gli fu preferito il solenne Gandhi di sir Richard Attenborough, mentre proprio Rambaldi fu premiato per “gli effetti speciali”. Spielberg, che già conosceva le regole dell’Academy, commentò pacato: «A Hollywood hanno pensato che eravamo già stati ampiamente ricompensati dal box office: e poi la tendenza è che i film importanti vincono sull’intrattenimento. La storia è più pesante dei popcorn». A conferma di questa (forse ironica) sentenza, Spielberg ha poi conquistato l’Oscar con film di diverso impegno storico come Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan. Ma resta forse la sensazione che il diplomatico autore non consideri affatto E.T. un popcorn movie. Per uno degli autori più avventurosi della nostra epoca certo non esistono divisioni classiche di questo tipo: magari la bambina col cappotto rosso che cerca vanamente di fuggire dal ghetto invaso dai nazisti (in Schindler’s List, appunto) è la sorellina sventurata dell’alieno: ci sarebbe voluta un’astronave per salvarla, extraterrestre portami via…