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 2012  novembre 16 Venerdì calendario

BUROCRAZIA CONDANNA-MALATI


Che differenza c’è tra un tedesco colpito nell’estate del 2011 da melanoma in stato avanzato, e che quindi ha pochi mesi di vita, e un italiano nelle stesse condizioni? Innanzitutto che il tedesco potrebbe essere ancora vivo, ma l’italiano è sicuramente morto. Ancora: che differenza c’è tra un inglese malato di epatite C nell’agosto del 2011 e un italiano nelle stesse condizioni? Che l’inglese ha avuto subito una terapia efficace e salvafegato e che l’italiano potrebbe essere in lista per un trapianto. Non basta? E poi, che differenza c’è tra un danese malato di tumore della prostata che si accorge nell’autunno del 2011 di come i farmaci per lui non funzionino più e un italiano nelle stesse condizioni: che il danese ha ottime probabilità di essere ancora vivo e che l’italiano è già morto.
Potremmo continuare. Ma questi casi ci bastano a dipingere una tragedia tipica del nostro Paese: il ritardo spaventoso col quale un numero importante di medicine innovative salvavita sono rese disponibili ai malati rispetto a quanto accade negli altri Paesi europei. Vediamo perché.
Cominciamo col dire che ogni nuovo farmaco che supera tre livelli di sperimentazione clinica nei quali mostra la sua innocuità e la sua efficacia (e già questo richiede dai 10 ai 13 anni di lavoro scientifico) viene proposto dalle aziende per la registrazione. In genere Big Pharma comincia con la Food and Drug Administration americana per il nobile motivo che il mercato Usa è più appetibile. Ma, in ogni caso, per sbarcare in Europa, alle nuove medicine serve l’approvazione dell’Ema, un’agenzia con sede a Londra che è la porta d’ingresso. Superata la quale, in molti Paesi i farmaci entrano quasi d’ufficio; giusto il tempo di vedere di che si tratta e di concordare un prezzo (visto che ogni Paese europeo ha diverse normative in materia). In Italia, invece, no. Perché da noi c’è un’agenzia (l’Aifa) che ha tempi elefantiaci e i nuovi farmaci superano il suo vaglio in media oltre un anno dopo l’approvazione europea (vedi grafico accanto). Prima di affrontare le diverse commissioni regionali. E prima, com’è ovvio, che l’Aifa stessa inizi a trattare con le aziende sul prezzo che il Servizio sanitario nazionale è disposto a pagare.
Un intrigo di pareri ed esperti che guardano e riguardano ogni volta i fascicoli, chiedono nuovi documenti, traccheggiano e siedono felici in una commissione, cosa che tanto piace ai professori italiani.
Viene da chiedersi se non sia del tutto inutile questa duplicazione di iter registrativo: se una medicina va bene all’Europa non può andare bene d’ufficio a tutti gli Stati Ue? E gli addetti ai lavori su questo si dividono. In molti sbuffano che in caso di farmaci salvavita e realmente innovativi (e poi ritorneremo su questo "realmente") l’Aifa dovrebbe semplicemente accettare il responso dell’autorità europea e che ogni traccheggiamento è inutile e crudele per i malati. Altri, invece, non obiettano al fatto che la nostra agenzia voglia vederci chiaro. Tra questi Roberto Labianca, presidente del Cipomo (collegio dei primari oncologi) e ricercatore di rango: «Penso che serva un passaggio a un tavolo di esperti che, basandosi sulla sapienza clinica, diano un parere sull’importanza del farmaco e quindi diano indicazioni a chi deve stabilire il prezzo. Perché è il clinico che deve dire quanto vale un farmaco. Ma deve essere un passaggio veloce: mentre l’Aifa e gli oncologi stanno lì a chiacchierare, ci sono pazienti che sanno che esiste un farmaco che potrebbe servirgli, ma che non possono averlo».
E questo è ancora più doloroso per quei malati che non hanno più alcuna arma a cui appellarsi. Come quelli di melanoma, appunto. Per questo Paolo Ascierto, primario di Oncologia Medica e Terapie Innovative dell’Istituto dei Tumori di Napoli afferma: «Siamo di fronte a un sistema che, a causa dei tempi di latenza, rischia di creare discrepanze tra i nostri pazienti e quelli degli altri Paesi europei». Ascierto si riferisce all’ipilimumab (prodotto da Bms), un farmaco estremamente innovativo, il primo vaccino di provata efficacia, che ha cambiato la storia delle terapie dei tumori. A oggi è approvato per il melanoma, e sperimentazioni sono in corso anche su altri cancri, come quello della prostata.
E a chi voglia obiettare che, in fondo, il melanoma metastatico colpisce non più di 1.500 italiani l’anno, non resta che guardare a una malattia che, invece, si è abbattuta su 700 mila persone nel nostro Paese. E alle grottesche vicissitudini di due farmaci (prodotti rispettivamente da Msd e Janssen) contro il virus dell’epatite C. Anche in questo caso si tratta di due molecole rivoluzionarie perché, per la prima volta, colpiscono al cuore il virus e, in un significativo numero di malati, riescono a spazzarlo via; sono disponibili in Europa da un anno e mezzo. Nel frattempo i malati italiani hanno continuato a fare la terapia standard: con effetti collaterali devastanti e con un minor tasso di efficacia.
Insomma, a mettere alle corde la nostra agenzia è la reale efficacia di alcuni farmaci. Per l’abiraterone della Janssen, attivo contro il cancro della prostata resistente alla terapia ormonale, alla quale vengono sottoposti tutti i pazienti che hanno recidive dopo l’intervento, la Fda americana ha chiesto addirittura l’iter abbreviato: i malati sono milioni e per loro non c’è nulla.
Ripartiamo allora da questo fatto. Ci sono milioni di malati nel mondo per i quali non esistono terapie. E i farmaci che offrono loro una speranza, accertata da sperimentazioni cliniche rigorose, si possono a tutti gli effetti definire "innovativi". Per i clinici è questo lo spartiacque: aiutano davvero le persone più o meglio dei farmaci disponibili? Se così è, bisogna fare presto.
Invece, il prontuario è pieno di medicine che innovative non sono per nulla, ma che vengono burocraticamente definite tali giacché apportano minimi benefici, magari a classi di pazienti che hanno già decine di prodotti a disposizione. Nessuno dice che non debbano essere registrati, ma certo non è su questi che si addensa l’indignazione per i ritardi. Anche se sono questi che affollano con voluminosi fascicoli i tavoli dell’Aifa. Ma se non riesce a fare un discrimine tra un’inutile copia e un salvavita, e quindi ad avviare iter differenziati, un’agenzia tecnica come l’Aifa, chi deve farlo?
Per conto suo il ministro Renato Balduzzi un piccolo passo l’ha fatto. E nel suo decreto appena approvato ha stabilito che, una volta ricevuto il vaglio dell’Ema e dell’Aifa, i farmaci devono essere resi immediatamente disponibili. Insomma, ha decretato che almeno la melina delle commissioni regionali bisogna saltarla. D’altra parte, uno studio pubblicato sugli "Annals of Oncology" nel marzo del 2010 a firma dello stesso Guido Rasi, al tempo direttore generale dell’Aifa, ha studiato l’iter di venti farmaci anticancro registrati in Europa e in Italia, scoprendo che sono stati disponibili ai malati italiani con un ritardo di 402 giorni, in media, dovuto circa in egual misura alle lungaggini dell’Aifa e a quelle delle regioni.
Balduzzi ha ritenuto di poter tagliare almeno i mesi di stand by regionale. Ottimo, commenta Stefano Cascinu, presidente dell’Aiom, l’associazione degli oncologi medici: «Ora dobbiamo monitorare l’applicazione del decreto in tutte le regioni. E definire il budget annuale dell’oncologia nel nostro Paese. Dove i farmaci anticancro rappresentano il 25 per cento della spesa ospedaliera per i medicinali».
E così Cascinu colpisce al cuore il problema. Abbiamo un bel dileggiare l’Aifa per i suoi ritardi e chiedere che facciano presto. L’impressione di tutti è che questi ritardi siano ben congeniali a un problema di fatto irrisolvibile: i nuovi farmaci costano moltissimo e la sanità subisce continui tagli. Come conciliare? Cascinu chiede innanzitutto di «agire sulle zone grigie dell’inappropiatezza». Che tradotto vuol dire fare in modo che non si somministrino medicine a chi è in fin di vita (vedi box qui accanto) e che non si usino farmaci inutili a chi chiaramente non può trarne beneficio. Perché, sottolineano i clinici, con l’ovvio appello etico a non far mancare i farmaci, spesso si scelgono terapie che costano di più ma non sono più efficaci.
Come ha dimostrato Marina Chiara Garassino, dell’Istituto dei Tumori di Milano, in uno studio presentato in sessione plenaria all’Asco, la maggior assise mondiale dell’oncologia, onore riservato a pochi. Garassino ha spiegato che l’erlotinib della Roche, utilizzato per trattare il tumore al polmone al ragguardevole prezzo di 2.900 euro per due settimane, di fatto funziona solo in quel 10 per cento di pazienti che hanno una certa mutazione genetica mentre viene utilizzato in un gran numero di malati. Laddove per il 90 per cento di loro è molto più efficace il vecchio ed economico docetaxel (870 euro). Gli onori americani indicano chiaramente che è di questo tipo di ricerche che c’è bisogno per risparmiare e liberare soldi per i veri innovativi. E forse è a storie come questa che Cascinu pensa quando parla di "zone grigie".
Non solo: c’è un altro modo per liberare risorse. Ed è quello di incentivare i generici: se usassimo i generici come li usano nella maggior parte dei Paesi europei, il Ssn risparmierebbe 300 milioni l’anno. E ancora altri ne metterebbe da parte se, come predica da anni il farmacologo Silvio Garattini, si smettesse di mandare in farmacia una pletore di molecole simili a quelle vecchie che, con semplici e inessenziali variazioni chimiche, si definiscono nuove e scalzano i generici grazie al marketing delle industrie. Non passa anno che non se ne registrino decine: i medici finiscono col credere che sono effettivamente innovative, convincono i pazienti che le preferiscono ai generici e il Ssn paga di più oggetti di fatto identici.
Resta comunque il fatto che non si possono far aspettare i pazienti gravi facendo melina per ritardare l’immissione in mercato coi conseguenti costi. Perché, conclude Roberto Labianca: «È una melina tragica: ci sono pazienti che muoiono perché non hanno il farmaco. I ritardi non sono più tollerabili, proprio per una questione etica nei loro confronti».