Gianni Perrelli, L’Espresso 16/11/2012, 16 novembre 2012
È TRIPOLI, MA SEMBRA SIRIA
Il bunker è scavato dentro una collina di Tripoli, schermato da una selva di palazzoni che fanno da scudo contro i colpi di mortaio. È il santuario libanese degli alauiti (ramo eterodosso degli sciiti), nel cuore del quartiere di Jabel Mohsen interamente circondato da zone sunnite. Una trincea decentrata del conflitto siriano dove Rifaat Eid, leader del partito democratico arabo, difende contro i salafiti della contigua area di Bab Al Tebanneh la sua roccaforte che sembra un sobborgo di Damasco. Agli angoli delle strade e sulle facciate dei bar, giganteschi ritratti del rais (alauita) Bashar Al Assad e del vecchio padre Hafez. Lungo i muri, scritte inneggianti all’amicizia con il regime siriano che vacilla appena oltre la vicina frontiera.
Jabel Mohsen, circa 50 mila residenti abbarbicati lungo i pendii come in un presepe, è l’epicentro dei duri scontri che fanno ciclicamente di Tripoli un retrovia della guerra civile dilagante in Siria. L’ultima battaglia, con numerose vittime, dopo l’attentato che in ottobre è costato la vita al capo dei servizi della polizia Wissam Al Hasan (per un complotto ordito secondo i sunniti a Damasco). L’enclave alauita è anche l’incubatrice di un contagio che rischia di far riesplodere nel Libano gli antichi odi confessionali. La prima pedina di un domino che, secondo i timori dei sunniti, servirebbe a Assad per esportare la guerra fuori dai suoi confini e coinvolgere nel caos l’intero Medio Oriente. L’estremo baluardo, nella convinzione degli alauiti (130 mila in tutto il Libano), contro l’invasione dell’integralismo importato dalle migliaia di ribelli riparati a Tripoli dopo le sconfitte nelle battaglie di Homs e Aleppo. Una bomba ad orologeria che il governo di coalizione presieduto dal sunnita (moderato) Najib Miqati, ufficialmente neutrale, non sa come disinnescare. Anche perché nell’esecutivo si ripropongono le stesse divisioni, con gli sciiti di Hezbollah che parteggiano per gli alauiti e il Movimento del 14 marzo di Saad Hariri schierato con i sunniti.
Jabal Mohsen e Bab Al Tebanneh (una borgata di 60 mila abitanti ricca di moschee) sono divisi da una piazza spelacchiata, dove troneggia sotto un bandierone libanese un carro armato dell’esercito che dovrebbe fungere da deterrente. Anche in tempi di tregua dalle due barricate si guardano in cagnesco. Inclusi i bambini che crescono giocando alla guerra con le armi di plastica. L’associazione franco-libanese Offrejoie ha aperto un parco in terreno neutro per farli incontrare e abbattere le barriere. Ma i genitori alauiti non si fidano temendo rapimenti.
Per raggiungere il bunker di Jabal Mohsen bisogna inerpicarsi lungo un paio di stretti tornanti fra gli sguardi torvi dei residenti che non gradiscono presenze estranee. Alcuni massi di cemento e un cancello scoraggiano gli eventuali assalti delle autobomba. Rifaat Eid, un omaccione di 45 anni dall’indole estroversa, diffida abitualmente anche dei giornalisti. «Questo conflitto», racconta concedendosi un’eccezione con "l’Espresso", «parte da molto lontano. Fu Yasser Arafat a provocare le prime divisioni negli anni Settanta. E poi a rafforzarle nell’83 quando si insediò per un breve periodo a Tripoli dopo la cacciata dei palestinesi da Beirut. Puntò per rafforzare la sua causa sul fattore religioso calamitando e armando gli integralisti sunniti che consideravano gli alauiti una setta eretica dell’Islam. Al di là delle questioni di fede, noi difendevamo una visione laica. Ci sentivamo in primo luogo libanesi anche se lo Stato ci trattava come cittadini di serie B utilizzandoci al massimo come spazzini. Negli anni Sessanta mio padre Alì, che aveva una laurea in chimica, partì in cerca di lavoro per la California dove rimase folgorato dalla lotta per i diritti civili di Martin Luther King e dalle battaglie del black power. Una presa di coscienza che decise di mettere al servizio della sua comunità. Al ritorno a Beirut si iscrisse alla facoltà di scienze politiche dell’Università americana dove strinse amicizia con tutti i futuri leader libanesi. Fu solo grazie a quelle influenti conoscenze che diventò direttore a Tripoli dell’Ufficio delle Finanze. Ma nel ’69, durante la cena in un pub, fu accoltellato in una rissa da un principe saudita e rimase paralizzato per due anni. In quel periodo di forzata inattività toccò con mano lo stato di povertà e degrado in cui eravamo sprofondati. Anche nei giorni di festa i feudatari vessavano gli alauiti obbligandoli a portare i loro cani a fare pipì. Mio padre capì che era giunto il momento di passare all’azione».
A Eid scappa un sorriso nel ricordare gli sforzi del genitore per sensibilizzare alcuni dei suoi amici. «Andò dal leader druso Walid Jumblatt che subito lo stoppò: "Sotto ognuno di quegli alberi che vedi intorno sono seppelliti tre dei nostri martiri. Solo quando avrai un numero altrettanto alto di vittime potrai rivendicare l’uguaglianza". Poi contattò Rimon Eddeh, allora candidato alla presidenza della Repubblica, che lo gelò: "Ma perché, esistono alauiti in questo paese?". Nel ’76, un anno dopo lo scoppio della guerra civile, l’intera comunità fu deportata in Siria. Il vecchio Assad ci aiutò in poco tempo a ritornare a casa. E fummo costretti ad armarci e combattere perché, per la nostra collocazione geografica, finivamo sempre in mezzo agli scontri. Dovemmo attendere l’89, con gli accordi di pace di Taif, per vederci riconosciuto il diritto a occupare due seggi in Parlamento. Ma pure in tempo di pace siamo ostaggi delle antiche faide. Oggi siamo accerchiati da 8 mila combattenti dell’Esercito Libero Siriano che inviano armi e fondi ai combattenti oltre frontiera e ci attaccano ad ogni minimo pretesto».
I vicoli di Bab Al Tebanneh sono altrettanto miseri. L’altra faccia della Tripoli opulenta che vanta il maggior numero di tycoon del Libano. Le case, sui cui tetti si notano postazioni di cecchini, sembrano attaccate al marciapiede con lo sputo. Girano molti uomini barbuti. La maggioranza delle donne indossa il velo. Nelle moschee gli sceicchi Salem Rafal e Mazen Mohammed (con un paio di arresti alle spalle per aver tentato ripetutamente di incendiare l’edificio che ospita un Kentucky Fried Chicken) eccitano gli animi riecheggiando i sermoni di Omar Bakri, ex portavoce di Al Qaeda. Nei bar si rilanciano le invettive contro gli alauiti del deputato estremista Mustafa Allouch. In un palazzone che sorge vicino alla terra di nessuno la famiglia sunnita che occupa il pianoterra si è costruita un ingresso privato per non incrociare nel pianerottolo gli alauiti che abitano negli appartamenti più in alto.
Qui, insieme alle bandiere nere dei salafiti, campeggiano i ritratti di Saad Hariri e del padre Rafiq morto nel megaattentato del 2005. «Tripoli è una città a stragrande maggioranza sunnita», minimizza Abdallah Baroudi, portavoce del Movimento del 14 Marzo, «ma non ci sono infiltrazioni salafite. È vero che dopo la strage in cui scomparve Hariri e il ritiro dal Libano delle truppe siriane i sunniti hanno atteso l’appuntamento con la vendetta. Ma, finché sul nostro fronte prevalgono i moderati, tutta la tensione si scarica prevalentemente in un incrocio di messaggi minacciosi".
Più preoccupato si mostra Ammar Al-Mussawi, capo delle relazioni internazionali di Hezbollah: «Gli avvenimenti della Siria hanno già destabilizzato il Libano. Se si intensificano le infiltrazioni dei terroristi come si può escludere anche da noi il pericolo di una nuova guerra civile?». Si diffonde la notizia-incubo della presenza di 400 combattenti jiahdisti, appartenenti a gruppi legati ad Al Qaeda nella costiera sud fra Khaldé e Sidone, armati fino ai denti e in grado di tagliare i rifornimenti all’Unifil e alle milizie di Hezbollah che pattugliano il confine con Israele. Se entrano in azione il Libano rischia sul serio di ridiventare una propaggine insanguinata della Siria.