Guia Soncini, Vanity Fair 14/11/2012, 14 novembre 2012
GEORGE GAY? TUA SORELLA
[«No che non è omosessuale, solo non è tipo da matrimonio», dice Adelia Clooney di suo fratello. Peccato che di questa smentita propio non sentissimo la necessità. Perchè, in fondo, non ci interessa sapere che l’eroe romantico del momento in realtà non è attratto dalla coprotagonista. Lasciateci almeno quell’illusione] –
Ma se George Clooney fosse gay, per noi cambierebbe qualcosa? Non dico «noi società attenta ai diritti civili, e che quindi ritiene ci sia il dovere della testimonianza, di dire la propria eventuale omosessualità allorché ricchi e famosi, in modo da aiutare l’accettazione dei gay qualunque». Dico: noi spettatrici con ormone imbizzarrito.
Perché, se ci pensate, l’unico senso a questa eterna chiacchiera, a quest’idea non solo di reticenza ma di messinscena (le fidanzate di copertura? Nel 2012? Non essendo un ragioniere di Bitonto ma un miliardario di Los Angeles?), l’unico senso starebbe nella nostra (di noi spettatrici) impressionabilità. Ci ritrarremmo con raccapriccio, se si sapesse che l’eroe romantico in realtà non è attratto dalla coprotagonista?
Hollywood avrebbe mai investito su Rock Hudson come romantic lead nei film con Doris Day, se lui fosse stato dichiaratamente omosessuale? Rupert Everett avrebbe mai potuto interpretare Ballando con uno sconosciuto, torbidissima storia di passione assai etero, dopo il coming out? Non sarà mica un caso se, dopo, ha avuto quasi solo ruoli di amico gay. D’altra parte è un’implicazione che viene da loro stessi: gli attori che si rifiutano di dire troppo di sé argomentano sempre che, se il pubblico conosce la tua vita, poi non crede all’avvocato o al killer che vede sullo schermo. Non sono solo i fabbricanti di pettegolezzi, quelli cui sfugge l’elementare verità che ci crediamo se decidiamo di crederci, mica se è verosimile.
Adesso formate due file ordinate. Da una parte quelle che piangevano tutte le loro lacrime con Ed ero contentissimo fino all’anno scorso. Dall’altra quelle che hanno continuato a piangere, squarciagolare, agitare accendini ai concerti anche dopo che Tiziano Ferro ha raccontato di avere un fidanzato, svelando che quindi era una donna dello schermo, quella «contentissima guardando Amsterdam», quindi era (scandalo!) tutto finto, forse non era neppure Olanda ma Francia, Sharm el Sheik, Rimini.
Formate due file, e disponetevi ordinatamente a constatare che le due file sono una fila unica.
Non so se sia sempre stato così. Può essere che ai tempi di Rock Hudson la sospensione dell’incredulità fosse più fragile. Magari siamo solo generazioni più allenate alla disinvoltura nell’avere sex symbol gay, a non formalizzarci tanto, noialtre che siamo cresciute coi poster di Miguel Bosé e George Michael.
La prova decisiva fu nel 1996, anno in cui il mercato (all’epoca floridissimo) delle commedie romantiche aveva due titoli come principali concorrenti. Jerry Maguire fece di Cameron Crowe un regista di culto. Un giorno per caso era una rom com dallo schema più tradizionale, e per questo, dice il protagonista, ebbe meno successo. Il protagonista in questione è George Clooney, e Jerry Maguire era invece Tom Cruise. Il 1996 fu l’anno in cui i due eroi romantici dello schermo erano due della cui sospetta omosessualità avremmo continuato a cianciare nei decenni a venire. Decenni nei quali, ogni volta che quei film son passati alla Tv, abbiamo continuato a commuoverci quando George si addormenta mentre Michelle Pfeiffer si fa bella, e a struggerci quando Tom dice a Renée Zellweger: «Tu mi completi». Abbiamo deciso di crederci. Il romanticismo cinematografico è una cosa seria, non sarà certo il sospetto che non somigli alla realtà a rovinarci il gioco.
Quindi, quando la sorella di George dà un’intervista al New York Daily News dicendo che George non è il tipo che si sposa, perché non si può star dietro a tutto, ha troppa carriera per occuparsi di una famiglia, non ci sembra una notifica di femminismo (non ci lamentiamo sempre che quelle cui si chiede conto del doppio ruolo sian solo le donne?).
Ci concentriamo invece sulla premessa: ma no che non è gay, è solo che non è tipo da matrimonio. Ah! Smentisce! Quindi è vero! Siamo la dimostrazione che fa bene George a non parlarci dei fatti suoi. Perché non è vero, come si sosteneva nel Giovane Holden, che se racconti qualcosa a qualcuno poi senti la mancanza di quel qualcuno. È vero, piuttosto, che se gli racconti qualcosa, poi quel qualcuno vorrà parlarne in eterno. Volete commentare la mia presunta omosessualità? Fatelo, ma senza la mia collaborazione.
Le tediose polemiche successive alla morte di Lucio Dalla – uno che aveva un fidanzato che tutti conoscevano, cui persino il vescovo si è rivolto dal pulpito durante il funerale – lo accusavano di avere occultato una vita che in realtà era quanto di più di pubblico dominio ci fosse. Perché, nella smania confessionale che ormai ci pervade, non basta non fingersi etero, né avere un compagno. Ci vuole l’intervista a cuore aperto, la mulinobianchitudine dell’omosessualità, la normalizzazione a tutti i costi. Non hai diritto di pensare che non siano fatti del pubblico. Hai il dovere di dirci che Cara era una menzogna, che in realtà era per un uomo. Se non lo fai, continueremo a raccontarci che, con quell’informazione, tutto sarebbe cambiato. Che «per i tuoi pochi anni, e per i miei che sono cento» ci avrebbe fatto piangere di meno. Come no.