Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 21 Mercoledì calendario

ORRICO, IL CALCIO È FILOSOFIA

Un’avvertenza, per seguirci in questo incontro al limite della metafisica è utile aver sfogliato Essere e tempo di Martin Heidegger o per lo meno aver chiaro uno dei pochi concetti illuminanti di Josè Mourinho: «Chi sa solo di calcio non sa nulla». Vent’anni prima del mago di Setùbal, all’Inter, da Lucca, dopo aver sfiorato una storica promozione in Serie A, era arrivato l’Omone, quello che Gianni Brera ribattezzò «il maestro di Volpara»: Corrado Orrico. Ad Appiano Gentile pensarono che fosse la risposta adeguata al santone di provincia che il Milan aveva trovato nell’Arrigo da Fusignano, Sacchi. Il presidente Ernesto Pellegrini chiese cortesemente all’anarchico massese di riconquistare quello scudetto che i nerazzurri avevano vinto nell’89, con la squadra dei record di Trapattoni. La storia racconta di un’impresa non riuscita. Ma l’impresa vera e propria, vent’anni dopo, è stanare Orrico nel suo romito di Volpara.

Celata sotto il manto frondoso di una foresta inaccessibile, persino ai galli liguri, al termine del viaggio nella notte si erge davanti a noi una petrosa torre di Montaigne. Entriamo nella sua stanza francescana. Un megavideo sta lì a ricordarci che siamo ancora nel terzo millennio d.C. Intorno a noi, solo mura legnose foderate di grossi tomi di filosofia, in cui il saggio 72enne passa le sue giornate a leggere e rileggere. Ma lo sa che non è affatto facile arrivare fin qui?, gli facciamo notare. E lui ombroso ribatte: «Tanto da quando sono diventato povero, non mi viene a cercare più nessuno... Sono rimasto solo, ho perso tutti. Mi restano soltanto i miei anziani genitori giù a valle e questi amici di carta… Vede quanti?». Indica i libri e si illumina d’immenso. «È l’unico tesoro che è rimasto a un autodidatta come me. Le

Confessioni di Sant’Agostino mi hanno seguito anche nella camere dei ritiri. Non sono un sapiente, ma solo un uomo costantemente alla ricerca della verità». La verità, per gli storici del pallone, è quella di un Orrico filosofo “errante”, nel senso che ha “sbagliato” all’Inter, ma anche la mosca bianca del sistema: l’unico allenatore che si ricordi ad aver dato le dimissioni alla Beneamata, rinunciando a 400 milioni di vecchie lire. Tanto quanto era costata la costruzione alla Pinetina della sua macchina infernale: la “Gabbia”. «Io sono uno normale, mentre il calcio di oggi è popolato di “originali” bene accovacciati ai piedi dei padroni. Il presidente Pellegrini con me è stato un signore, ma la dignità di un uomo vale molto più di 400 milioni.

Quando mi sono dimesso ero 4° in classifica, una partita da recuperare con la Cremonese e un derby pareggiato con il Milan degli olandesi che era nettamente superiore a noi. Quindi confutato anche l’errante. Quanto alla “Gabbia” tutti, tranne Klinsmann di recente, si sono fermati alla parte ontica e nessuno è sceso sul piano ontologico per chiedermi la sua reale funzione… Ebbene mi serviva per “tranciare brani della catena tattica” su un campo di 48 metri per 25. Posso assicurare che al di là del vincere o del perdere, quei movimenti ripetuti in gabbia si sono sempre realizzati e molto di più all’Inter che alla Lucchese, perché più si sale di categoria e più aumenta il tasso culturale del calciatore. Certo, stiamo parlando di cultura da campo...». Un ghigno e una pausa per accendersi il primo sigaro Toscano della seduta peripatetica. «Il calciatore manca della parte intellettuale. La maggior parte sono infingardi e tutti, nessuno escluso, si sentono prime donne. Due esempi delle seguenti categorie? Se Totti si fosse allenato con lo spirito di sacrificio di uno Javier Zanetti avrebbe vinto più Palloni d’Oro di Messi. Al tempo stesso Zanetti , che è uno che non sa giocare al calcio, almeno secondo la mia teoretica, a 39 anni per la voglia di primeggiare e di esser-ci (mi raccomando, lo scriva heidegerrianamente, col trattino) spacca le montagne... La verità? Un allenatore veramente bravo se ai suoi giocatori durante la settimana riesce a trasmettergli l’interesse a 9, poi alla domenica al massimo gli torna indietro una materia da 6. A gente come me e Zeman è tornato indietro anche qualcosa in meno, pur interessandoli da 10». Confessioni amare di uno sconfitto? «No tutt’altro, perché è con il calcio che ho sperimentato il pathos del non riuscire ad impossessarmi del tutto di quell’essere che agisce nel gioco. Non è vero, come dicono stoltamente tanti tecnici, che nel calcio non si possa inventare più nulla. Se avessero dato una letta alla meccanica quantistica comprenderebbero che anche in questo sport ci sono miriadi di soluzioni e tutte diverse sulla base dell’ipotesi probabilistica».

Proviamo a scendere dall’ iperuranio ad altezza d’erba, quella di un campo di calcio per esempio. Via l’essere e dentro il tempo: ritorno a quell’estate del ’92 in cui mentre era solido e all’apice, la sua Inter sfidava in amichevole la Lucchese, passata nel frattempo a un traballante Marcello Lippi. «A Lucca lo chiamavano il “Bagnino” di Viareggio... - sorride - . Quel giorno saranno stati in 16mila al Porta Elisa e tutto lo stadio tifava solo per Orrico. Lippi ebbe la sfortuna di prendere quella Lucchese dopo di me, ma poi si è rifatto con tutti gli interessi, dalla Juve alla Nazionale. Nel 2006 ha vinto un Mondiale con mezza squadra composta da “somari”.

E basta con la storia della fortuna di Lippi, allenare non è mica un mestiere che si regge sulle dee bendate... Questi giovani di adesso, Montella, Conte, Stramaccioni, Allegri, lo sanno bene. Sono più bravi dei vecchi mister, hanno maggiore cultura sotto tutti i punti di vista». Spegne il sigaro, si alza, ci mostra un saggio critico sull’Ulisse di Joyce, «quasi introvabile» e la collezione dei Meridiani «acquistati a Milano, proprio quell’inverno che ero all’Inter». Poi ne ha per tutti: «La Juve con Conte è tornata la più forte, ma ha svenduto lo stile degli Agnelli ai manager dell’ipocrisia. Zeman è il migliore della vecchia guardia, ma è diventato un aziendalista alla Roma e si può consolare solo con la poesia di Totti. Ibrahimovic?

Zingaresco, o ti decide la partita o si fa travolgere dagli eventi e con lui fa inabissare tutta la squadra. Thiago Silva è bello, elegante, fortissimo, ma non sarà mai un uomo spogliatoio come Nesta. È gente come lui che manca al signorino Allegri e Berlusconi, dopo aver tagliato più del governo Monti, ora voglio vedere come gli rimpiazza certi campioni… Meglio Moratti che anche in tempi di austerity offre sempre il meglio a chi lavora per la sua Inter e se lo fanno bene li gratifica con estrema generosità». La generosità, categoria che unita alla tecnica e alla forza fisica nel calcio di Orrico portano ad avvicinarsi alla perfezione estetica. «L’ho sperimentata in Lothar Matthäus. Possedeva la stessa dinamica di una palla di gomma, capace di essere ovunque e pur non essendo un gigante saltava più in alto del Colosso di Rodi. Un fenomeno Lothar, come tutti i pensatori tedeschi, ai quali prima o poi noi poveri provinciali italici dovremmo riconoscere il primato del loro pensiero universale». Siamo tornati a dare i

noumeni . Secondo sigaro e riflessi televisivi. «Il calcio ormai lo guardo da quello schermo lì. Cosa mi affascina ancora? La partita, le emozioni che riesce a trasmettermi sono intatte. Il brutto, il marcio, è il cinismo strutturale. Gli opportunismi e il malcostume dei presidenti: la Figc il signor Abete e compagni, dovrebbero fissare delle penali salatissime per quelli che esonerano un allenatore prima della fine del girone d’andata… E una multina anche all’incoscienza ammirevole di tutti questi calciatori tatuati e con le creste. Mi sembra di esser tornato a quando mia madre da piccino mi faceva il boccolo in fronte...».

Ripone sugli scaffali Vita activa di Hannah Arendt e prima di uscire dalla sua torre filosofale Orrico ci ricorda che il pallone resta comunque un dio. «Sono con Einstein quando dice il “mio Dio è quello di Spinoza”. Un Dio che è ovunque, sostanza infinita, come infinite sono le combinazioni del mio calcio... Ma questo pochi l’hanno capito».